Dott. ROSALIA AZZARO PULVIRENTI

Fondazione teoretica di un nucleo ontico della persona umana

Tratto da: "Rivista rosminiana di filosofia e di cultura", Anno LXXXVI, Fasc.III, 1992, pp.233-254

 

Il decorso della civiltà, cristiana in particolare, è giunto a riconoscere e garantire ad ogni uomo la sua identità personale. Il corso della scienza sperimentale, genetica in particolare, dalle scoperte degli ultimi trent'anni ha concluso che ogni essere umano possiede una determinata e specifica identità biologica.

La nostra tesi consiste nel sostenere razionalmente che le due non possono che costituire un unico nucleo ontico, il quale sta a fondamento di ogni possibile sviluppo psico-fisico, che da esso dipende, e non viceversa: ed in ciò consiste la sua assoluta dignità, che fa dell'essere umano una persona.

Tale nucleo non è naturalmente autosufficiente, né nel suo porsi né nel suo evolversi; ma ha una sua precisa autonomia, che in senso biologico corrisponde al codice genetico, in senso personale alla sua libertà, che va riconosciuta come diritto almeno potenziale a qualsiasi essere umano, che pure non sia in condizioni di esercitarla.

La rilevanza di quest'argomento in sede bioetica è evidente: se identità biologica ed identità personale costituiscono un unicum inscindibile, dai primi inizi della vita umana nascente agli estremi epigoni della vita morente, a questo nucleo ontico(cioé esistente come tale per sua essenza, in virtù del suo stesso essere, della natura umana), vanno riconosciuti insieme al titolo di persona umana tutti i diritti relativi.L'essere umano viene così ad essere sempre riconosciuto come soggetto e non oggetto in campo bioetico,anche quando a livello teorico costituisca l'oggetto della riflessione.

Altro concetto fondamentale che deriva da questa impostazione, è che l'etica è per l'uomo, perché sull'essenza stessa dell'uomo si fonda ll discorso e l'imperativo etico: in quanto ogni considerazione sul valore ha una relazione fondamentale con qualcosa di reale, anzi con qualcuno realmente esistente, l'uomo. La bioetica stessa è resa possibile da questa sua relazione con un reale ed è questo proprio a costituirne il fondamento come scienza oggettiva, non "astratta", per quanto utile o necessaria.

A ben guardare, la questione della possibilità di una fondazione teoretica è connesso a quella stessa di una Bio-etica. Il fatto evidente della necessità di alcuni principi regolamentatori dell'attività umana in campo bio-medico, non potrebbe infatti implicare l'accettazione di un unico codice di riferimento, o principio fondamentale sul quale costruire quella gerarchia di valori che renda di fatto possibili delle scelte (in caso di conflitto tra essi). Non potrebbe, dico, se questo fondamento unico già non fosse dato, essendo l'uomo stesso, non come può venire inteso o considerato (si pensi alle varie accezioni del termine "persona") ma come è, ontologicamente.

Non si intende qui soffermarsi sui vari pareri, se siano compossibili varie etiche, e i tentativi di impostazione relativi, che sono stati oggetto di studio. Quel che preme sottolineare, è che l'impostazione di qualsiasi problema in bioetica, non può essere affrontata e trovare una soluzione valida, vedendolo dall'esterno-come dovere di riconoscimento di certi principi da parte dell'uomo-ma come interno all'uomo stesso, in questi termini:l'intelligenza umana è capace di verità, di riconoscerla ed assumerla come norma dell'umano agire? Nel caso di risposta negativa, non resta che innestare l'utopia di una"etica senza verità".

"Finora i nostri scientisti -affermava J.H.Newman- non hanno dimostrato l'evidenza dell'affermazione che la verità religiosa - morale, diremo qui -è irraggiungibile; d'altro canto, molte menti profonde hanno sostenuto con forti argomenti che può essere raggiunta; e l'onus probandi (l'onere della prova) chiaramente tocca a coloro che introducono nel mondo ciò che il mondo intero sente come un paradosso". Effettivamente, "il mondo contemporaneo sente la necessità di ritrovare una consistenza ontologica alla realtà della persona umana".

Il problema della bioetica è sì gnoseologico, riguarda cioé la reale possibilità di una conoscenza (gnosi) umana che "non accetta niente dogmaticamente o per autorità; ammette solo ciò che è evidente, sperimentalmente o logicamente provato; è perciò conoscenza critica e comunicabile. Ma autonomia non è autosufficienza". Per evitare quindi l'approccio sterilmente razionalistico-vale a dire quella razionalizzazione dell'esperienza di tipo kantiano, che solo apparentemente rivaluta la sintesi di esperienza e ragione, che è conquista galileiana- occorre alla Bioetica ricordare che il metodo conoscitivo dell'uomo non è autosufficiente, non può essere assunto come strutturale al conoscere stesso: se il processo cognitivo, anche in sede etica, viene a coincidere con il soggetto che conosce, tale processo non può che perdere il suo fondamento ontologico veritativo. Soggettivandosi del tutto -come prova la stessa storia della filosofia dopo Kant- perde il suo valore oggettivo.

Il problema principale della bioetica, è quindi quello del "principio primo costitutivo dell'ente intelligente come tale, problema metafisico, che precede e fonda quello del conoscere (...) che da Cartesio in poi ha prevalso e dominato lo svolgimento della storia della filosofia".

Antonio Rosmini chiama persona "un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sé un principio attivo, supremo ed incomunicabile" Da qui parte la nostra indagine, sul come questo "principio attivo supremo" possa essere identificato teoreticamente, sintetizzando ragionamenti logici ed esperienze sperimentali, in "ogni individuo della natura umana ragionevole (che) dicesi persona,, in quanto "il semplice sussistere è di gran dignità nella natura ragionevole" (ivi), anche se non raziocinante: solo in quanto esistente in tale natura (umana), tale principio attivo è il fondamento dell'unità tra identità biologica ed identità psicologica. Il nucleo ontico della persona umana non va cercato quindi in una chiara ed esaustiva definizione del concetto di persona, in quanto ciò significa semplicemente ricadere nel razionalismo; quanto piuttosto in una prova razional-sperimentale dell'esistenza di tale nucleo primitivo unico e fondante.

E' quanto ci indica ancora un filosofo come Rosmini: "... che cosa s'intende di significare oggidì nell'uso comune colla voce Razionalismo, se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l'assenso (il che non eccede il voluto della buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Dippiù, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che essa sia?". In nota poi egli aggiunge, che fu Cartesio a pronunciarne il principio fondamentale, in modo implicito: perché "esigere l'idea chiara della cosa prima di assentirvi, è appunto porre in termini il razionalismo filosofico; perocché l'idea chiara della cosa è assai più che la prova razionale dell'esistenza della cosa stessa". Per finire Rosmini osserva che una cosa è il razionalismo dialettico dl Cartesio ed un altra il più recente, per esempio quello di Hegel, che è metafisico: "Il primo esige l'idea chiara della cosa per ammetterne l'esistenza, il secondo considera l'idea della cosa come il tutto della cosa stessa"

Quel che ci si propone non è dunque una trattazione sistematica su "cosa è" la persona umana, che pretenda -razionalisticamente- di non poterne affermare né il valore né l'esistenza senza aver prima sceverato ed esaurito tutti i possibili significati. Il carattere "metafisico" dell'indagine trae piuttosto la sua concretezza sia dal suo oggetto -la persona intesa come principio costitutivo, realmente esistente, dell'essere umano- sia dal suo metodo, del tutto simile a quello delle scienze sperimentali, con le quali ha in comune il punto di partenza: l'osservazione di un fatto.

"Tale è il corretto cominciamento filosofico: non una dimostrazione -perché" la dimostrazione non si fa senza principi, e se anche questi si dovessero dimostrare, si andrebbe all'infinito e non si raccozzerebbe giammai alcuna sorta di sapere" - ma la osservazione, perché la maniera di provare o di negare i fatti è l'osservazione, e non il ragionamento".

L'insorgere prepotente di una materia come la Bioetica, per quanto si cerchi di ingabbiarla e renderla inoffensiva frantumandone la forza originaria in un ventaglio di analisi e di possibilità etiche, ha di fatto dimostrato l'insufficienza sia della razionalità scientifica che di quella filosofica. S'impone viceversa la necessità di una "filosofia pratica" che approdi, come dice un filosofo contemporaneo, ad un'azione che costituisca però una sorta di "applicazione", cioè di verifica della validità delle conoscenze, e consenta quindi di controllarne il grado di razionalità. La reciproca annosa diffidenza tra "scienziati" e "filosofi", può essere vista in questa prospettiva come "la colluttazione di due astrattezze", nella misura in cui si ritengano autosufficienti, sciolte cioé dal vincolo di ciò che è effettivamente tutto l'uomo, nella sua struttura significativa fondamentale, che viene prima ed è più di ogni sua funzione.

L'approccio più corretto, se non l'unico praticabile, a questa struttura o nucleo essenziale, a noi pare non possa essere che il confronto razionale tra i dati scientifici più aggiornati e l'interpretazione del linguaggio sull'essere umano (analizzato in astratto come individuo, soggetto, io, persona), che permetta di approdare ad una concezione antropologica tale che il piano logico e quello ontologico siano distinti ma non separati. E' questa la strada, a nostro avviso, per trarsi fuori dalle sabbie mobili di quella frammentarietà di significati che, per il solo fatto che esiste, viene arbitrariamente elevata a "molteplicità ed evidente incommensurabilità dei concetti invocati". Alla luce di quanto detto finora sull'approccio di tipo razionalistico, risulta evidente che la "inesauribilità" dei concetti viene qui, in campo bioetico, confusa con la "incommensurabilità" di ogni concetto: come se di un esperimento scientifico si affermasse che non è esatto nel suo procedere, solo perchènon è ultimato e che non è valido nel suo risultato perché non pretende di dire l'ultima parola in merito.

La tracotante "debolezza" di una simile impostazione, che da Kant in poi confessa di essere dottrina essenzialmente negativa, era già nota al nostro filosofo Roveretano il quale nel primo '800 notava che "della confessione della propria impotenza e nullità insuperbisce come della massima e dell'ultima delle sue scoperte!".

Una impostazione "ontologica", scientifica e filosofica insieme, consentirà invece al discorso bioetico di evitare il rumore di insistenti sollecitazioni non qualificate, e mirare invece ad ottenere il ragionato consenso di silenziose adesioni: "Quid enim turpius... Bioethica captante clamores?"". Niente di più turpe che tendere ad accattivarsi i clamori politico-mondani: si potrebbe applicare alla Bioetica ciò che gli antichi dicevano della filosofia.

Non intendiamo certo affermare che sia questo l'intento di certa bioetica, che dogmaticamente assume come realtà l'asserzione della "inesauribilità" ed "incommensurabilità" dei concetti; motivo per cui, il suo compito si ridurrebbe a "far da ponte tra comunità morali diverse e dare autorevolezza alle loro imprese comuni. Guai a tentare di imporre un'ortodossia morale, ingiustificabile da parte di un governo laico", come è stato di recente sostenuto. Ma l'autorevolezza, se non la si ha, nessuno se la può dare: o esiste un'autorità morale, derivata da principi di fede( validi almeno per tutti quelli che ci credono, come il codice etico del Vecchio e del Nuovo Testamento)o si deve ricorrere all'autorità morale di una opinione (doxa) corretta (ortos, da cui ortodossia), cioé sostenuta dalla forza logica che ne metta in luce la verità difficilmente confutabile, da parte di altre opinioni più deboli, soggettive. Altrimenti, nel "tentativo di concludere la discussione morale" (scopo effettivo della bioetica, non raggiungere il quale ne mette in dubbio la sua stessa essenza ed utilità), ad una "realtà" dogmaticamente indefinibile dovrebbe corrispondere un "uso assertivo di principi definitivi" al fine di "definire il quadro in cui si articola piu di frequente il discorso etico".

Tale pretesa di descrivere in modo definitivo principi e tesi non si sa in base a che cosa definiti, è tipica di quella filosofia "descrittiva" che prende acriticamente le mosse da un fondamentale scetticismo, circa la possibilità dell'intelligenza umana di approdare ad una verità reale, per quanto parziale, cioé di entrare in rapporto con la realtà veritativa sottesa al fenomeno.

Tale scetticismo prende a sua volta le mosse dalla suddivisione netta operata da Cartesio tra res cogitans e rex estensa; si nutre del credo di Hume circa l'effettiva impossibilità di una vera conoscenza oltre il sensibile, e prende le ali con la conseguente pretesa di Kant, di impossessarsi della vera realtà del noumeno attraverso il processo conoscitivo razionale. Ma, come si accorse lo stesso filosofo di Tubinga, si tratta di un volo di Icaro. Tale separazione tra l'ordine logico e l'ordine ontologico, è altrettanto perniciosa sul piano cognitivo e quindi etico, della artificiosa coincidenza dei due, di cui si fece vanto l'idealismo hegeliano, con la celebre formula "il reale è razionale" e viceversa. La distinzione dei due ordini nell'unità, è invece evidente ed inconfutabile proprio in quel soggetto che è (esiste anche materialmente) ed è capace di elaborazione logica, o attività simbolica (come oggi si preferisce dire, ribadendo anche sul piano cognitivo la non-rilevanza, se non proprio l'impossibilità per la mente umana che nella sua fase evoluta si serve di simboli, di elaborare un contenuto razionale oggettivo)./

Questo soggetto è l'uomo, l'essere umano, l'ente che esiste con la specifica natura umana: ad ognuno di questi termini corrisponde un concetto, che appunto occorre studiare e definire.

E' ben vero quindi che il dover essere (ought ) non può essere dedotto da constatazioni di fatto (Is ), puramente descrittive, nel senso di: estranee all'uomo concreto stesso, alla struttura ontologica dell'essere umano. In ciò Hume, parlando di "fallacia naturalistica", aveva perfettamente ragione. Ma il dover essere -in mancanza di un codice morale accolto per un ragionevole credo(in un essere che in forza della sua assoluta realtà genera la verità stessa e dà luogo ad ogni altra realtà relativa) o anche in compresenza di esso- trova il suo fondamento nella constatazione di ciò che l'essere umano stesso è, che ognuno ha perciò in comune con tutti gli uomini.

L'identificazione di questo nucleo ontico fondamentale e "comunissimo", permette quindi l'elaborazione di una norma universalizzabile perché universale, già in origine. Il dover essere si può fondare perciò sul soggetto, ma nel senso di: su ciò che di oggettivo, universale, comune a tutti, è ed ha ogni soggetto umano, semplicemente perché di quella natura, umana, ragionevole.

E' stato notato che "la rivoluzione scientifica del XVI° secolo (Bacone, Galilei, Newton) ha posto in ombra il concetto di natura umana per evidenziare quello generico di natura come causalità funzionale". Tale concetto è stato così rapito al piano suo proprio, e trasportato su quello prettamente fisico-materiale: trasposto insomma da quello filosofico a quello tipicamente scientifico. "Si è accentuata così la dimensione dí mobilità e di dinamicità, fatta riconvergere sull'uomo dal Romanticismo, però in senso psicologico e naturistico, di relazione con la natura intesa come qualcosa di non-disponibile per l'uomo".

In mancanza di un fondamento riconosciuto- un nucleo ontico unico e comune per natura ad ogni essere umano- della natura umana viene ad essere enfatizzato il dinamismo, come della realtà Hegel aveva esaltato il divenire, col farlo coincidere anzi con essa.

La mancanza di chiarificazione di una reale base biologico-personale insieme, cioé unica, e l'assunzione del concetto di natura umana sul piano razionalistico come "Spirito" o su quello biologistico come "materia organica in evoluzione" o infine su quello del materialismo storico, ha portato a intravedere il valore di natura umana come buona solo nel futuro: non in ciò che è, da sviluppare e correggere, ma in ciò che può essere, se opportunamente orientata. Il suo essere biologico viene visto (accogliendo la crasi cartesiana tra rex estensa e rex cogitans) soltanto come "corredo genetico" e poi "funzioni biologiche", come cioè una "potenzialità" puramente materiale e passiva, nettamente separata dal suo potere di agire (libertà), che viene invece a costituire l'unico vero valore. Valore, in quanto permette all'essere che "biologicamente" appartiene alla specie o natura umana, di appartenere alla cultura umana: di essere cosciente cioè della sua ispirazione (innata) alla libertà personale, di partecipare attivamente alla costruzione del destino proprio e del cosmo, di aprirsi infine al piano trascendente, generalmente inteso come metastorico. Il valore di un bene come la libertà personale viene dunque fatto coincidere con la sua cosciente possibilità di esercizio, in questa impostazione astratta e diveniristica, ancorché romantica: "Tutto ciò che può concorrere alla costruzione sempre protesa in avanti di un essere le cui caratterisitche spaziano tra la finitudine della condizione umana e l'aspirazione all'infinito che la sostanzia, entra a far parte della natura dell'uomo". La formale grandezza del concetto di natura umana viene in questo modo proiettata in un futuro possibile, non radicata in un reale esistente. Risulta senza fondamento, non a caso dilaniata tra una materiale finitudine ed una aspirazione universale.

L'affermare invece, per evidenza logica e riscontro scientifico, l'esistenza di un nucleo ontico primitivo dell'essere umano-cui appartiene la libertà come facoltà potenziale, anche al di fuori o nell'impossibilità del suo esercizio-, affermare dico questo nucleo ontico biologico-personale come valore relativamente assoluto (persona) significa riconoscergli già una sua primigenia appartenenza ad un piano "trascendente", trascendente la sfera non-umana, meramente materiale. In questa primigenia appartenenza ad un piano superiore, consiste già la grandezza della natura umana, e di ogni soggetto di tal natura, precedenternente ad ogni suo futuro sviluppo.

Al contrario, per sostenere che non solo il valore ma l'essenza della natura umana consiste nella sua proiezione verso il futuro ("...natura è la meta del cammino di umanizzazione che ci sta davanti"), viene scomodato anche S. Tommaso d'Aquino, per il quale ,si dice,"L'elemento primario della legge naturale consiste appunto in una inclinatio"; tale inclinazione naturale non viene però intesa secondo il realismo intellettuale tomistico, come un operari (agire) che segue (sequitur) un reale modo di essere (esse), cioè come spinta attrattiva verso una vera realtà, da ricostruire in sé nella misura in cui si riconosce di parteciparne, già, esistendo (operazione questa in cui sono quindi compresenti sia il piano intellettuale che esistenziale). Tale inclinatio viene vista piuttosto come "realizzazione dei livelli di umanità dell'uomo", livelli anch'essi futuribili e non meglio definiti: perde quindi la sua matrice ontologica (esse) per ridursi al puro agire (operari).

La normatività prescrittiva del concetto di natura umana, non viene così ancorata all'incondizionato rispetto di qualcosa di realmente esistente, ma ad un ideale totalmente astratto di "umanità", vagheggiata magari alla Rousseau come qualcosa che "ci sta alle spalle". Astratto ideale così vago che poi ognuno, naturalmente, può formarsi e costruirsi come crede e sente meglio, pur di "non rinunciare a diventare uomo", in un senso però anch'esso avulso da ogni contesto culturale strutturato, visto come "un attentato alla integrità della persona".

Tutti concordano sul fatto che "la dignità della persona e la sua intangibilità sono il fondamento dell'ordine giuridico e anche dell'etica", il problema si pone su che cosa si intenda per persona: concetto astratto o soggetto individuale unico ed irripetibile? La questione fondamentale non è: se e quali diritti (integrità, individualità, libertà, etc;) riconoscere alla dignità della persona, ma: riconoscere che l'essere umano concretamente esistente (vivente), in quanto tale è il diritto, è "diritto sussistente" (secondo la felice espressione rosminiana), cioé il fondamento di ogni diritto garantito dalla società civile.

Al rispetto della intangibile unicità di quest'essere vivente di natura umana, può e deve far capo l'impegno etico delle tecniche biogenetiche: non ad un astratto e pericoloso "stimolare l'ominizzazione attraverso il miglioramento diretto dell'eredità genetica" secondo "un'accurata pianificazione di cambiamenti costruttivi", come si è osato sostenere e non si teme di ripetere.

Infatti, se uomini non si è, ma si diventa, la strada a qualsiasi miglioramento della razza o della specie (meglio se pilotato dagli "Illuminati "di turno) resta aperta: "Ora che l'intervento nella riproduzione dischiude anche la possibilità di modificare la struttura bologica stessa dell'uomo, la prospettiva di un'auto-ricreazione dell'uomo diventa una possibilità da valutare attentamente".

Le più recenti scoperte delle biologia molecolare, che "sottolineano la sostanziale unitarietà del fenomeno vita, quale manifestazione del contenuto informativo e delle proprietà del DNA", inducono anzi secondo alcuni a "superare la centralità del singolo essere umano ": mentre, a rigor di logica, dovrebbero condurre ad una maggiore estensione e ad una rivalutazione prettamente scientifica del principio di "sacralità della vita" (denominato PSV dalla bioeticistica sedicente laica, in contrapposizione al proprio PQV, Principio della Qualità della Vita: dove ad una realtà concreta come vita viene contrapposto un astratto indefinito come qualità; la quale resta poi da precisare , secondo un "sano individualismo", magari "collettivo", che viene a sostituire la concreta individualità, magari malata o in ancora in nuce ).

Questo superamento della centralità non solo della vita ma dell'essere umano, andrebbe a favore di una estensione a tutta la biosfera delle speciali prerogative che l'etica tradizionale riserva all'uomo. Si tratta di un ritorno, come si è visto, ad un concetto esclusivamente sperimentale di natura, che non solo ingloba ma fagocita quello specifico di natura umana, ribadire il quale, secondo questa nuova linea etica, sarebbe qualcosa di molto simile al razzismo.

E ' opportuno a questo punto,dato anche il carattere interdisci plinare della riflessione bioetica ,precisare quali sono le recenti scoperte della biologia molecolare cui si è fatto cenno.Come è noto,esse sono:sulla linea biochimica-enzimatica,"le scoperte delle endonucleasi di restrizione,i cosiddetti bisturi molecolari che permettono di tagliare le doppie eliche del DNA in punti predeterminati,contrassegnati da brevi sequenze ,e di altri enzimi in grado di legare tra loro i frammenti che ne risultano.

Dati questi sviluppi dell'ingegneria genetica, ad esigere una riflessione etica non procrastinabile sono due tipi di possibilità che si offrono agli operatori:la prima, più comune, ottenere in laboratorio nuove combinazioni di geni, estranee al corso naturale dell'evoluzione biologica, con la conseguente possibilità di creare nuovi organismi, prodotti senza aver prima sufficientemente meditato l'impatto del loro impiego sulla biosfera. La seconda, la più delicata, la possibilità di manipolazione delle cellule germinali; queste tecniche, come si sa, sono diventate ormai di routine nella sperimentazione su piante ed animali superiori e su mammiferi d'importanza zootecnica :ne risultano i cosiddetti organismi "transgenici", il cui patrimonio genetico è stato modificato in tutte le cellule, comprese quelle germinali, responsabili della riproduzione.

Tale patrimonio genetico alterato passa così di generazione in genetrazione.

La manipolazione delle cellule germinali degli esseri umani (ovuli e spermatozoi), poneperò i problemi più gravi ed ineludibili, anche perché d'immediata ricaduta su un nuovo essere di genere umano: la morula o blastula (immediatamete data dalla fusione delle due cellule originali, maschile e femminile), così chiamata - come si sa - perché la subitanea suddivisione in due e poi quattro, otto etc. cellule primitive del nuovo organismo, assomiglia visivamente - prima di dar luogo con successive autonome espansioni all'embrione - appunto ad un mucchietto di more. Dall'analisi genetica del nuovo organismo vivente, portatore di una sua particolare e specifica "programmazione strutturale" o "struttura programmata" (visibilmente identificabile nel nuovo DNA, unico ed irripetibile per ogni individuale organismo vivente di natura umana,dall'istante immediato della sua prima formazione), risulta evidente che non si può con rigore logico in questo caso, parlare esclusivamente di "nuova particolare combinazione di geni" o genotipo (o genoma, termine con cui si indica tale combinazione dopo che sia stata "vidimata" da una particolare combinazione di "condizioni ambientali" selettive). Non si può perchè si tratta già di un nuovo essere - organismo umano vivente realmente - che ha già inscritte nel suo DNA tutte le sue naturali possibilità o impossibilità di sviluppo, crescita e maturazione.

Da un punto di vista logico il DNA potrebbe essere tranquillamente inteso come la "trascrizione biologica" (fisica) dell'idea di forma formante (gestalt), intesa come "totalità anteriore delle parti"; tale "trascrizione dell'idea di forma" viene dal pensiero razionale riconosciuta come "un'esigenza d'ogni interpretazione dei fenomeni della vita". Anche nel caso dell'essere umano biologicamente inteso si può quindi affermare che "é la sua formalità che fonda la sua sostanzialità".

Tale "formalità" (parola con cui come si è visto si intende la "forma formante" che determina ed impone praticamente tutto lo il processo biologico, secondo una continuità ininterrotta, dall' inizio alla fine della vita umana), è quindi evidentemente tutt'altro che un'astrazione, una costruzione mentale: come dimostrato scientificamente, è una realtà che sta fisicamente a fondamento di quella "sostanza" in continuo sviluppo che è l'essere vivente: essere umano, in quanto sin dall'inizio appartenente a quella natura specifica detta ragionevole, in quanto capace - a meno che fattori fisici particolari non ne impediscano l'effettivo esercizio:malattie, menomazioni, etc. - di un'attività (simbolica o razionale o spirituale che dir si voglia), superiore a quella prettamente determinata dal codice biologico.

In conclusione a questa premessa, appare chiaro che la tesi che si intende sostenere - l'esistenza di un unico nucleo ontico fondante il valore di persona in qualsiasi essere vivente di natura umana -, è precisamente opposta alla seguente: "Un embrione allo stadio di cellula pronucleata non ha gli stessi diritti di un bambino che va a scuola, o un adulto che va al suo lavoro. Un feto di tre mesi è diverso da un neonato ... e ad essi si devono perciò attribuire differenti livelli di rispetto, secondo il loro stadio di sviluppo".

La contraddizione logica, e quindi etica di questa opinione - ormai assai diffusa a livello di mentalità comune - deriva dal salto logico operato dalla oprima alla seconda proposizione. E' infatti evidente, e da qualsiasi legislazione civile riconosciuto,che gli esseri umani, ovviamente diversi "secondo il loro stadio di sviluppo" (un bambino o un adulto,un feto o un neonato) non hanno esattamente gli stessi dirittin (al lavoro, all'istruzione, alla proprietà, etc.). Ciò però non comporta affatto la "attribuzione" di "differenti livelli" di rispetto: il rispetto verso un altro essere va infatti riconosciuto - e non attribuito - in base a ciò che esso è, non in base a ciò che esso ha, quand'anche si trattasse di facoltà congenite - diritti - la cui esplicazione e riconoscimento formale vengano recepite in un secondo tempo dal soggetto stesso sul piano della coscienza, benché egli - nel caso dell'essere umano - ne sia portatore dal momento stesso in cui viene all'esistenza come esser vivente di quella specifica natura, a cui tali facoltà o diritti sono appunto congeniti.

Altra opinione diffusa, conseguente a questa, è: "Al fine di prevenire la nascita di un bambino terribilmente difettoso e la distruzione emotiva ed economica della famiglia, l'aborto, è la migliore tra due scelte infelici".

Queste due opinioni hanno evidentemente in comune una forte tendenza (trend): affermazioni date come rigorosamente indiscutibili vengono dedotte da premesse arbitrarie, che non sono né analizzate né basate su principi primi. Ciò non è frutto di "leggerezza" o mancanza di approfondimento - come può esserlo nel caso della mentalità corrente -ma di ua precisa scelta di campo a livello filosofico.

E' noto infatti che questa è una tesi della filosofia analitica: il compito del filosofo deve limitarsi a dedurre principi rigorosi da principi primi arbitrari (anche irrazionali). E' per questo motivo, probabilmente, che tra certa bioeticistica è invalso l'uso del termine "giustificare" in riferimento alle posizioni etiche assunte o sostenute: non si tratta infatti - e ciò "per principio", senza ulteriori giustificazioni - di conformare il proprio agire a scelte sostenute da motivazioni morali oggettive, razionali, fondate; ma si tratta di "giustificare" (trovare razionalmente una giustificazione), il comportamento scelto, in quanto "appare" più utile, piacevole, logico, etc..

Tale strumentalizzazione della razionalità è tutt'altro che conforme alla dignità della ragione .. Ma trova una sua spiegazione in quella che viene da alcuni "considerata come una delle maggiori conquiste dell'etica del nostro secolo", ovverossia "il merito di aver introdotto la nozione di dovere prima facie, nella teoria etica". Come si sa, il dovere prima facie è quello valido finché non intervengano ulteriori fattori a metterlo in conflitto con altri valori, che ne inficiano la doverosità stessa.Effettivamente, all'interno del circolo vizioso - a livello per meglio dire cerebrale, che logico - della ricerca del "dovere assoluto", ci si imbatte inevitabilmente in incongruenze che portano dal conflitto al "corto circuito "tra vari doveri (esempio classico, la salvezza della vita del non-nato in alternativa a quella della madre). La ricerca razionale invece del fondamento del dovere,cioè del diritto che si deve rispettare, consente di uscire da questo circuito impraticabile, perché riporta la riflessione sul piano ontologico, reale:alla realtà che è l'essere umano, valore egli proprio relativamente assoluto, in cui si può trovare -umanamente - la fonte di ogni gerarchia di valori o di doveri.

L'essere umano è fondamento dell'ordine etico in quanto valore assoluto in se stesso, nel suo semplice essere dato, (che rimanda ad un Essere Datore, del cui Essere partecipa in quanto è posto - da tale Essere che assolutamente è - in relazione con sè stesso, attraverso appunto l'atto che lo pone in essere dal nulla).

Per sua natura stessa quindi, ogni dato essere umano è un valore relativamente assoluto; assoluto rispetto ad ogni altro valore, ma relativameente, in quanto egli stesso intrinsecamente "relativo" : perchè non solo si qualifica, per sua essenza originaria, come"essere - in -relazione" con l'Essere, ma trova il limite alla sua assolutezza in quest'essere suo relativo:1°, all'Essere assoluto e 2°, agli altri esseri relativi.

In questo quadro di logica metafisica si situa il discorso etico, che perdendo - altrimenti - il suo reale fondamento, risulta praticamente impossibile, destinato ad essere sostituito da surrogati razionalistici, quanto arbitrari.

E' possibile una bio-etica, un'etica non probabilistica o pluralistica ma normativa nell'ambito delle scienze della vita?

Il primo contributo di un'elaborazionale razionale deve essere come abbiamo visto quello di assumere come problema il tema stesso, in quanto una scienza dell'applicazione di determinate norme fa logicamente riferimento ad una teoria dell'obbligazione, la quale a sua volta non può esistere se non in rapporto ad un codice di valori basati su principi, universali, se non assoluti:universali in quanto fondati su un unico fondamento valido per tutti gli uomini: la struttura ontologica stessa dell'essere umano.

Si è evinto da tale impostazione,come una scienza dei principi fondanti -metafisica - sia in stretto collegamento con la possibilità reale di una Bioetica.Il problema però non va visto in modo teorico ed astratto, come esterno all'uomo, ma come interno ad esso: l'intelligenza umana è capace della verità, di riconoscerla ed assumerla come norma dell'umano agire, che risulti quindi morale? Solo in caso affermativo si rende possibile una bioetica che non sia di maniera o di circostanza, e si pone come primario il seguente problema: "che si conosca bene il soggetto al quale ella deve applicarsi, il quale è l'uomo. Quindi si scorge manifesta necessità, che la morale applicata e la scienza di applicare la scienza suprema sia preceduta da un'Antropologia, la quale faccia conoscere l'umana natura in rispetto alla moralità".

Una antropologia razionale è l'unica a poter fungere da mediatrice tra il punto di vista scientifico - biologico e quello filosofico - etico, a riguardo di un'elaborazione teorico-normativa del concetto di persona umana, (dal suo inizio al suo cessare di esistere come tale), dei suoi diritti e doveri .

Questo tipo di mediazione è tipico dell'essenza del pensiero rosminiano, come lo è anche la convinzione - in perfetta linea con l'impostazione della questione bioetica - che non solo l'uomo può muoversi verso la conoscenza del vero nella sua totalità, ma tale possibilità è più propriamente un'esigenza del suo essere in quanto umano.

E' per questo motivo che, nella nostra indagine di tipo metafisico, che usa come strumento la riflessione razionale, ci serviremo di elaborazioni concettuali di questo filosofo .

Da notare inoltre,che la razionalità per Rosmini non è qualcosa di astratto, ma anzi di molto concreto:è l'unione individua delle due parti di cui è composto l'uomo: "d'una parte intellettiva e d'una parte animale che presta all'intendimento i segni delle cose reali col mezzo delle quali egli le pensa. L'unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo".

Il concetto rosminiano di razionalità "in cui risiede la natura umana" è quindi come si vede all'opposto di quello puramente idealistico (di uno Spirito "puro" avulso dalla "materia" del conoscere) e piuttosto assai vicino al realismo gnoseologico tomista (di un intelletto che astrae attraverso la conoscenza sensibile il sapere razionale, la verità "dalla" cosa).

Dalla seconda parte della proposizione citata potrebbe però sembrare che, anche per lui, la persona umana consista "nella parte intellettiva e dotata di attività". Ma esaminando con attenzione il testo, comparato con altri luoghi che esplicitano il pensiero del nostro autore, risulta che non è così. Abbiamo già visto che Rosmini chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sé un principio attivo, supremo, incomunicabile.

Prima cura di ogni riflessione etica, deve essere quella di porre in atto una certa explanatio terminorum, spiegare cioé non solo cosa intende l'utore, ma cosa si può intendere correttamente, a rigor di logica, con i termini: individuo, natura, io, sostanziale, intelligente, etc.

E' stato giustamente affermato, infatti, che: "L'etica inizia dalla linguistica, dalla semantica".

Ma ancora prima occorre chiarire quest'equivoco: il legame tra principio intellettivo (capace di operazioni squisitamente spirituali come il pensiero) e natura biologica non sta nell'ordine della causalità efficiente (vale a dire:non è il principio specifico dell'essere umano - la capacità intellettiva - che causa l'uomo) ma nell'ordine della causalità strumentale: il principio intellettivo si serve di quello biologico pienamente sviluppato; ma non è tale da causarlo, cioè da dotarlo della sua dignità e capacità intrinseca, che consiste appunto nell'essere "unione individua"(sinolo, secondo una terminologia desueta ma esatta), dei due principi, intellettivo e biologico: particolarità unica dell'essere umano in tutto l'universo, che lo qualifica come tale. L'unione dei due giova ad ambedue nell'ordine sostanziale, cioé nell'ordine dell'essere, per completare cioè la perfezione sostanziale di quell'essere in quanto completa la perfezione della specie umana: come il principio intellettivo - per quanto "più nobile" - ha bisogno di quello biologico per completare la sua perfezione sostanziale, lo stesso dicasi di quello materiale (del corpo, ancorchè non del tutto o non perfettamente formato), al quale appartiene la dignità di principio intellettivo anche non in esercizio, per il semplice fatto di appartenere alla specie umana. Argomento principe a sostegno di questa tesi fa leva sul fatto inconfutabile anche sperimentalmente, che tale sinolo possiede un'attività tutta sua: ed "a ciò che gode piena autonomia nell'ordine dell'agire deve essere consentita piena autonomia nell'ordine dell'esistere", se è vero il principio speculare su cui si basa il valore di libertà: piena autonomia dell'agire non può essere consentita che a ciò che gode anche piena autonomia nell'essere.

Autonomia(sia in campo teoretico che fisico)non vuol dire evidentemente autosufficienza, cioè: "bastare a sé stesso" per sopravvivere. Ma significa: godere di un proprio atto di esistere, cioè della facoltà o potenza di agire autonomamente, cioé di svilupparsi fino ad essere totalmente in atto. Qui per potenza si intende l'accezione logicamente più corretta di: virtualità esistente già capace dell'atto.

Tale impostazione antropologica, risalente alla concezione tomistica dell'essere, è fatta propria da Antonio Rosmini nella misura in cui però riconosce che ilconcetto di persona (come "unione individua") pur essendo inferiore a quello di anima nell'ordine spirituale, è tuttavia superiore nell'ordine esistenziale, dell'individuo-uomo realmente esistente. In quest'ordine esistenziale Rosmini può quindi attribuire il "principio supremo" dell'essere umano alla volontà .

La volontà, per Rosmini, è quella potenza attiva per la quale l'uomo agisce non in quanto spinto da un'inclinazione, ma dagli oggetti della sua mente in quanto sono approvabili; è quindi la facoltà che presiede al bene morale. L'atto della volontà è quello per cui il soggetto intelligente riflette su una cosa conosciuta assentendo ad essa e quindi riconoscendola come buona la verità è perciò il principio della morale: "la natura dell'essenza morale giace in un atto del reale cioé nell'atto volitivo del subbietto reale, pel quale atto il reale amando e volendo aderisce al reale in tutta la sua totalità conosciuta nell'idea".

Ma in quanto la volontà è essenziale alla natura umana (caratterizzata notoriamente dalla libertà come effettiva possibilità del suo esercizio), ne risulta che tale facoltà - la volontà - caratterizza la persona, anche in assenza del suo esercizio: "L'unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo."

Particolare attenzione va prestata inoltre, come è noto agli specialisti, al lessico rosminiano. Dal confronto con la proposizione precedente ("la razionalità in cui risiede la natura umana") si nota che il vocabolo "risiede" ha una caratterizzazione concettuale di tipo ideale: la razionalità cioé sarebbe ciò che caratterizza idealmente la natura umana,la quale però è nel modo reale costituita dalla "unione individua", come si è detto, delle due componenti, "intellettiva" e "animale" (in linguaggio corrente: "razionale" - nel senso di spirituale o intellettuale - e "biologica"). Alla stessa maniera, il concetto ideale di persona umana "risiede nella parte intellettiva e dotata di attività", condizioni necessarie e sufficienti all'esercizio della volontà: la quale però coincide con la persona in quanto è principio attivo supremo ed incomunicabile, contenuto in sè dall'individuo sostanziale di natura umana, quindi intelligente, come si è detto precedentemente: "Si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sè un principio attivo, supremo ed incomunicabile" . Da quanto detto si desume anche che tale individuo sostanziale intelligente - l'essere umano - non coincide con il suo principio, per quanto lo contenga, e ne sia qualificato immediatamente come persona: "Persona è un soggetto intellettivo in quanto contiene un principio attivo supremo". Alla successiva riflessione appare chiarissimo che "soggetto" e suo "principio" sono in relazione, concetto questo che coincide perfettamente col riscontro sperimentale fornitoci dalle più recenti scoperte della genetica.

Afferma Rosmini: "Tanto la parola soggetto quanto la parola persona esprime l'ordine intrinseco dell'essere in un individuo senziente, e però ha per base una relazione fra il principio intrinseco(onde dipende la sussistenza dell'individuo, e onde muove tutta la sua sattività), e tutto il resto che è nell'individuo stesso, e che viene da quel principio sostenuto ed attivato" (nota (50): "(50) Convien dire adunque che il nome persona non significa nè meramente una sostanza né meramente una relazione, ma una relazione sostanziale, cioé una relazione che si trova nell'intrinseco ordine dell'essere di una sostanza".

Il concetto di ordine dell'essere è fondamentale in Rosmini: corrisponde in lui a quella "formalità che fonda la sostanzialità" di ogni essere, in quanto permette la trascrizione dell'idea di forma come "totalità anteriore delle parti".

Come è noto agli studiosi rosminiani, questa nozione dell'uni-totalità(vocabolo che appartiene anche al filosofo russo Vladimir Solov'ev ), cioè di una unità nella totalità (e viceversa), è fondamentale nel filosofo roveretano, e gli permette di approdare a quella nozione basilare della sua maturità filosofica che è la legge del "sintesismo dell'essere".

Quanto questa concezione di una uni-totalità sia pertinente al nostro assunto,si desume non solo dalla sua attinenza ad un autentico concetto di persona, ma alla stessa bioetica come scienza teoretica e non solo sperimentale.Scrive infatti Rosmini:" Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica,si è la distinzione dell'idea dalla sensazione; non v'ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime,che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga ed una semplice inclinazione che alletta.Se non v'ha nulla nell'umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v'ha neppur nulla che costituisca una differenza essenziale dell'uomo dai bruti; e se non v'ha altra legge morale che l'inclinazione a ciò ch'é piacevole, è tolto via con questo ogni diritto e non esiste che un fatto.

Una tale filosofia distrugge dunque l'umanità, e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l'animale:ella è dunque falsa,perché manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia,cioé di quello della TOTALITA'.Ma il carattere della TOTALITA',com'abbiamo osservato,é congiunto essenzialmente coll'altro dell'UNITA'; e non può avervi neppur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello.Peciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose,che dall'immenso lor numero ne fanno riuscire una sola".

In questa sede, come punto d'approdo a noi basta il concetto fondamentale di persona come "relazione sostanziale" o "uni-totalità": in quanto appunto "sta per base" o fondamento sia al "principio intrinseco onde dipende la sussistenza di un individuo" che a "tutto il resto"(dizione quest'ultima in cui può esser compreso ogni possibile sviluppo dell'essere umano). Ne è base o fondamento appunto in quanto relazione tra i due, relazione inscindibile, "sintetica", sostanziale: perciò stesso, si tratta di qualcosa di reale, non di ideale o tanto meno astratto.

Alla luce di quanto esaminato finora, risulta evidente che sarà sempre irrisolvibile la famosa mind-body question, cioè il problema del rapporto o relazione tra mente e corpo nell'essere umano, fino a quando ci si ostinerà a considerare i suoi termini come due opposti poli non solo del discorso ma della realtà. Tale viziata impostazione deriva storicamente dal vecchio dualismo anima-corpo di matrice platonica, abbracciato dal pensiero moderno tramite il dualismo razionalistico cartesiano tra le due res . La presunta impossibilità di intra vedere una soluzione a tale quesito, si nutre di quella "orgogliosissima modestia" di chi afferma di "non voler entrare a discutere l'essenza delle cose" perché essa "è inescogitabile": la qual massima - afferma Rosmini - è il vero principio, il fonte di ogni saper superficiale". Tale superficialità radical-chic, che oggi va per la maggiore, ha la sua specifica origine in un pregiudizio (cioè, quanto di più irrazionale possa essere posto a base di un ragionamento logico), pregiudizio ideologico tacito ma inamovibile, denunciato dallo stesso Rosmini nei seguenti termini: "tutto dee ridursi alla materia, lo spirito non dee esser necessario".

Ma l'acutezza critica del nostro filosofo si rileva maggiomente dall'aver egli intravisto chiaramente la fonte di tale erroneo pregiudizio, vale a dire"l'illusione degli Hegeliani, che hanno confusa ed identificata una base dialettica del'ente - cioè la materia presa dalla mente per base dell'ente - colla base reale, cioè con l'ente stesso. La sola materia, le sole appendici dell'ente, non esistono"(non esistono cioé, separate dall'unica totalità di cui fanno effettivamente parteper loro essenziale natura, ut supra: un equivoco in merito potrebbe riesumare quell'accusa di "ontologismo idealistico" che in passato non mancò al Rosmini, anche da parte cattolica) "se non davanti alla mente,dialetticamente, cioè per opera della mente: il solo ente esiste".

Non esiste quindi "la materia", esistono "gli enti", materiali o spirituali, e tra i due la differenza non è di grado ma di essenza, come aveva già osservato Tommaso d'Aquino a proposito della differenza tra facoltà sensitive ed intellettive.

E' logicamente evidente che un principio sensitivo non può "diventare" intellettivo, per il semplice fatto che non è in suo potrere cambiare natura (conformemente al detto sperimentale: natura non facit saltum). Il divenire, ci ha fatto notare Rosmini, è dialettico, dovuto, ripetiamo, alla necessità dialettica della mente umana, o dell'osservazione scientifica, ma non reale. Ma l'aveva già notato l'Aquinate, che il trasformismo è dottrina falsa ed assurda. La persona umana intesa come "principio attivo, supremo ed incomunicabile" è, come tutti i principi, un'entità semplice, che non può cambiare di specie (ricordiamo che anche in ambito zoologico il concetto di specie deriva dal fatto che non può avvenire salto o passaggio attraverso incroci tra diversi generi animali). Il principio attivo in quanto vivo, può perfezionarsi in sè stesso rimanendo quello che è per natura. Esiste certamente un principio (o termine, direbbe Rosmini, che ha elaborato una dottrina specifica in merito) biologico per così dire inferiore, se non altro nel senso temporale di "precedente", il quale però può cambiare natura chia rito da un mirabile esempio tomista: come l'aggiunta di un'unità muta le specie di un numero, e il due diventa tre, senza però annullare l'entità dell'uno e del due; così "l'aggregazione di un principio inferiore a un principio superiore muta natura all'inferiore, senza che questo sia distrutto pur prendendo qualcosa di nuovo, muta natura nel senso che il principio inferiore viene innestato, sollevato ed attratto all'esistenza del principio superiore".

Alla luce di quanto visto circa la concezione rosminiana, dalla imprescindibilità di una "unione individua" tra i due principi, "biologico "ed "intellettivo", ne risulta anche la sostanziale "parità" dei due sul piano esistenziale, per quel che riguarda l'essenza e la dignità dell'essere umano vivente; a condizione però, appunto, di non separarli, anche solo teoricamente, negandone dialetticamente uno a scapito dell'altro.

In conclusione, pur restando aperto un vasto campo di approfondimento e di indagine, specialmente sul concetto di persona (in Rosmini, per esempio, sono basilari la distinzione e l'analisi dei vari termini relativi: Io, soggetto, etc.), ci sembra di aver a sufficienza evidenziato la nostra tesi:vale a dire, che non solo è possibile elaborare razionalmente un concetto universalmente valido di persona, ma che tale elaborazione -l'esplicitazione a livello metafisico del rapporto con i concetti e i valori di fondo della persona umana - è non solo utile ma indispensabile alla soluzione dei vari problemi etici, posti dalla ricerca e dalla medicina sperimentale e clinica, nonché dall'assistenza al malato, o, infine, da tutti quegli atti dell'essere umano che riguardano un altro essere umano nell'ambito più essenziale :quello della vita.

Perché, in definitiva, quello su cui è necessario per prima cosa concordare, tra sé e con gli altri, è che con tutti gli atti che riguardano il corpo umano, ci si muove all'interno di un'unica natura umana, la quale come "quiddità della cosa" non può non abbracciare tutto "quanto è richiesto dalla dignità della specie", come sosteneva Tommaso d'Aquino a proposito dei molteplici sinificati del termine "natura".

Ci sembra infine che quanto da noi sostenuto, desumendolo dal pensiero di Antonio Rosmini, circa il concetto di persona umana come "individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sè un principio attivo, supremo ed incomunicabile", concordi sostanzialmente con quanto affermato dall'Aquinate: "E poiché l'individuo di ordine sostanziale e denominato ipostasi, che nelle sostanze intelligenti è denominato anche persona, è giusto che tutte codeste cose si dicano unite secondo l'ipostasi, ovvero secondo la persona. E' evidente quindi che niente impedisce che cose le quali non sono unite secondo la natura (materiale o spirituale,ndr) siano invece unite secondo l'ipostasi ovvero nella persona".

Da tale distinzione teorica logicamente fondata (e inconfutabile, se non in base al pregiudizio che nell'uomo esista una sola natura, quella materiale:pre-giudizio a-scientifico perché non dimostrato, tanto meno a livello sperimentale), risulta irrazionale e quindi non-etica la separazione tra "essere umano" e "persona" (umana), viste come due diverse categorie in base alle quali classificare due diversi tipi di soggetti individuali appartenenti alla specie Homo sapiens Ciò comporterebbe - ammesso che tutte le azioni riferentesi agli "umani" non siano moralmente neutre - l'individuazione di due diversi codici morali, a seconda dei "soggetti morali" diversi: "essere di specie umana" o "persona"; la considerazione morale non sarebbe quindi dovuta all'essere umano in quanto tale, insieme alla tutela dei diritti specifici, ma riconosciuta a differente livello ad esseri diversi; non prima però di aver determinato i rispettivi "valori specifici" da attribuire, per esempio, ad una vita umana "esclusivamente biologica" (espressione con la quale si intenderebbe quella priva di capacità psicologiche in atto).

Tale "separazione di classe" si riflette nell' uso giuridico, ove una prassi consolidata non aveva finora avuto bisogno di tenere in considerazione la persona umana se non già nata: in quanto la legge ne tutelava implicitamente le possibilità naturali di venire al mondo.

Si impone quindi, come viene da più parti riconosciuto, anche una riconsiderazione critica del termine "persona" in ambito giuridico, che ne riconosca - alla luce delle più recenti scoperte scientifiche - il nesso indissolubile con il proprio dato biologico già esistente (dal momento in cui l'essere di natura umana inizia a vivere, quindi è) .

Fino a questo momento invece, l'attenzione giuridica e legislativa è stata monopolizzata dalla persona, intesa in modo astratto e totalmente compiuto come "capacità -già in atto- di assommare, godere, e disporre di un insieme di diritti",piuttosto che come un "soggetto-altro con valore di fine". Ancora una volta, ci si trova in presenza di quella artificiosa separazione tra "ordine ontologico" ed "ordine logico", da cui risulta un modello di essere umano o persona che non corrisponde a ciò che è in realtà, e che all'atto pratico dà luogo a situazioni di profonda ingiustizia, in quanto si risolve a danno dei soggetti più deboli.

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