UNIVERSITA' DI ROMA "TOR VERGATA"
SCUOLA DI PERFEZIONAMENTO IN MEDICINA LEGALE
Anno accademico 1993-94
Dott. ROSALIA AZZARO PULVIRENTI
CORSO DI BIOETICA
Relazione tra Bioetica e Deontologia
La questione dei rapporti tra deontologia, etica medica e bioetica è recente ed aperta.
L'atteggiamento della medicina nei confronti della bioetica, in particolare, sembra caretterizzato da una certa ambivalenza.
Da una parte c'é chi riconosce, sulla linea della tradizione ippocratica, che deontologia, morale e bioetica siano termini strettamente affini, e che possano essere ugualmente utilizzati dall'etica medica-termine sempre più frequente in letteratura al posto di "deontologia"-con il quale si intende "il complesso degli obblighi morali che regolano la prassi medica".
Restando ferma la distinzione tra etica e deontologia(fissata in precisi Codici professionali), si può in quest'ottica auspicare un insegnamento più sistematico dell'etica e dei suoi riflessi in campo medico-scientifico, nelle facoltà e scuole mediche.
Secondo questa impostazione "clinica", il ragionamento morale dovrebbe però evitare di mettere in campo i princìpi generali pur concentrandosi invece sui casi particolari.
Altri invece oppongono una sorda o aperta resistenza all'ingresso dell'etica nell'ambito suddetto, presumendo che allo scienziato basti la "sua" etica, l'etica scientifica, ed al medico la sua deontologia e la sua coscienza; e sospettando anche che una teoria etica applicata tenda in definitiva ad introdurre una qualche visione "ideologica", da cui l'operatore sanitario o scientifico dovrebbe tenersi lontano, in quanto il suo compito sarebbe di attenersi "ai fatti".
Tale vecchia polemica tra etica o filosofia morale e scienza "pura", non può più comunque riaprirsi in termini ormai passati, in quanto dagli esiti storici(per es. l'uso bellico dell'energia nucleare o gli esperimenti medici nei lager) è apparso evidente che un'impresa scientifica del tutto avulsa dal rimando a valori etici, non solo può risultare "inumana", ma si espone all'utilizzo incontrollato da parte di qualsiasi potere ed ideologia.
Alcuni poi, pur riconoscendo le profonde differenze tra etica e deontologia, ritengono che quest'ultima sia sufficiente alla formazione del medico(VIDONI, 1982), e vedono l'affermazione della bioetica come un tentativo di sganciarla come dottrina dalla sua naturale sede, quel pensiero medico-legale che da secoli la governa(FRANCHINI).
C'é anche chi sostiene che "mettendo a confronto il puro filosofo con il puro ricercatore biologo, significa aumentare la confusione e l'incomprensione, favorire la conflittualità: cioé, fare della "bio-etica", aggravando i problemi senza contribuire in qualche modo a risolverli.Occorre invece costruire una "deontologia" aggiornata all'attuale progresso della scienza (...) sulla base della formulazione di regole di condotta o di norme, che siano espressione non tanto delle varie correnti di filosofia morale, ma esprimano invece(in quanto norme non solo legali, ma anche sociali e consuetudinarie) i valori e i principi che hanno ispirato la costituzione della struttura culturale, sociale e comunitaria in cui viviamo e siamo inseriti".
Di una posizione di questo genere, vanno rilevate alcune giuste istanze: come quella di una bioetica che pervenga a dare un vero contributo operativo e giuridico, non si riduca ad una "storia infinita" di questioni morali e non dipenda dal mutare storico-concettuale delle varie etiche.
D'altra parte ne vanno rilevate le incongruenze: la stessa deontologia non può dipendere nei suoi fondamenti dall'oscillare dei principi che reggono le varie strutture socio-culturali, come sostiene una certa impostazione sociologica della morale; ed è a tutti noto che i codici deontologici di fatto si basano su valori che sono il frutto di una riflessione secolare in ambito filosofico, etico e giuridico.
Non vi è dunque luogo ad una contrapposizione tra l'elaborazione di dottrine morali applicate ai vari ambiti, come la bioetica, ed i valori e principi ispiratori della nostra Costituzione, della nostra cultura e del vivere sociale; anzi è proprio la riflessione morale di livello teoretico che interpreta e dà voce alle diverse uimpostazioni culturali che si fronteggiano all'interno di una società pluralista come la nostra.
Inoltre, data la complessità sia qualitativa che quantitativa delle questioni etiche, relative alla pratica della medicina, alla ricerca e sperimentazione, alla distribuzione delle risorse sanitarie, alle scienze della vita, nessuna branca del sapere o della prassi(neppure il più perfetto codice deontologico) può responsabilmente pensare di gestire solo con i suoi strumenti, il complesso della problematica etica in campo biomedico e scientifico, ostinandosi a considerare il riferimento alla Bioetica, oltre che inutile e pericoloso, anche "banale".
Esiste anche chi ricerca una linea di mediazione "pragmatica", sostenendo l'impossibilità pratica di un adeguato insegnamento etico-filosofico ai medici, se non altro perché sarebbe impossibile "comprimere un così ampio settore del pensiero umano nell'ambito di un corso di una decina di ore"(INTRONA).
Infine, viene ricordato che oggi esiste in realtà una mancanza di univocità di intendere i termini "etica", "morale", "deontologia", ciò che indubbiamente ha portato ad appannare il concetto di deontologia, il quale, se unicamente riferito a precetti ed obblighi morali, appare restrittivo ed inattuale:"la Medicina Legale porta in definitiva il suo contributo alla ricerca dei valori semanticamente sussunti dalla bioetica, la quale resta terreno interdisciplinare d'indagine" .
E' evidente che tali categorie concettuali convergono verso una summa unitaria di valori e concreti comportamenti, che comprende anche i principi che regolano l'etica e la morale medico-scientifica.
La ricerca di questa base comune, universalmente valida in quanto connaturata all'essenza stessa dell'uomo, non è dunque un tentativo astratto ed illusorio: benché sia sottoposta alla necessità di riportare il comportamento professionale ad obblighi e doveri più o meno vincolanti.
Di recente un gruppo di studio di cultori di bioetica, deontologia medica e medicina legale, ha preparato un documento(che è stato approvato nel maggio 1991 dal Consiglio direttivo della Società italiana di medicina legale e delle assicurazioni), nel quale si riconoscono l'autonomia delle singole discipline, specificandone accuratamente gli ambiti e la reciproca interconnessione: è il Documento di Erice sui rapporti della Bioetica e della deontologia medica con la medicina legale.
In esso, la BIOETICA viene definita come "un'area di ricerca che, avvalendosi di una metodologia interdisciplinare, ha per oggetto l'"esame sistematico della condotta umana nel campo delle scienze dlla vita e della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce di valori e principi morali", secondo la definizione data gà nel 1978 dall'Encyclopedia of Bioethics.La sua specificità deriva dal tipo di problemi che essa affronta, dalla natura delle istanze etiche e dalla metodologia utilizzata.(...)Le finalità della bioetica consistono nell'analisi razionale dei problemi morali legati alla bioemedicina, e della loro connessione con gli ambiti del diritto e delle scienze umane".
Nello stesso documento, la DEONTOLOGIA MEDICA è detta "una disciplina il cui oggetto è lo studio delle norme di comportamento professionale specifiche delle professioni sanitarie"(...)Finalità della deontologia medica è l'approfondimento essenziale e l'aggiornamento delle norme e regole di condotta della professione medica".
La MEDICINA LEGALE infine "è per sua natura scienza interdisciplinare la quale studia con metodologia specifica i contenuti biologici e medici delle norme giuridiche al fine di consentirne la migliore interpretazione, l'applicazione e lo sviluppo, e che collabora con la giustizia e con i privati alla soluzione di casi che richiedono indagini e valutazioni di ordine biologico e/o medico".
Per le conseguenze giuridiche e medico-biologiche che essa richiede ed in ragione della sua specifica competenza nell'ambito della responsabilità professionale, sanitaria, la medicina legale ha naturali connessioni sia con la deontologia medica sia con la bioetica".
La Bioetica dunque, con la sua metodologia interdisciplinare ed i risultati a cui giunge contribuisce ad orientare, aggiornare e giustificare la normativa deontologica ed il diritto condendo, sulla base dello studio critico della natura dell'essere umano e dei caratteri del sapere scientifico.
Inoltre, la bioetica contribuisce ad inquadrare gli interventi sulla vita umana in un ambito più ampio(per es. la biosfera), discutendone criteri e limiti di liceità.
Il fondamento della Bioetica come scienza
Anche sulla definizione di "bioetica" e sulla sua breve storia il dibattito è ancora tutt'altro che concluso.
Secondo un'espressione di P. CATTORINI, che riporta le conclusioni del primo Simposio del Consiglio d'Europa sulla bioetica(tenutosi il 5-7 dicembre 1990 a Strasburgo), essa non è né diritto né medicina forense, ma piuttosto materia interdisciplinare, nel senso che è l'analisi razionale dei problemi morali legati alla bioemedicina contemporanea, un'analisi che deve tener conto del pluralismo culturale della nostra società.
Dal punto di vista storico, il termine "bio-etica" venne coniato nel 1971 nel titolo di un libro dell'oncologo V.R. POTTER
Una tale disciplina si distingue dall'etica tradizionale non solo per il suo oggetto, ma perché questo nuovo approccio etico comporta un notevole ampliamento del campo d'indagine, da quello medico a quello della ricerca scientifica, dal socio-politico all'ecologico.
I passi principali, compiuti nella direzione di un riconoscimento della necessità di un' etica-per-la-vita o bio-etica, sono i seguenti:
1. l'etica medica ippocratica;
2. la morale medica suscitata dal cristianesimo(vedi la nascita degli ospedali);
3. il Processo di Norimberga(contro i crimini di sperimentazione su esseri umani considerati, come scrisse GOEBBELS in una circolare, "individualità prive di vigore vitale"), che diede spunto alla formazione di Codici Deontologici, alla Carta dei Diritti dell'Uomo promulgata dall'ONU nel 1948, alla nascita dell'OMS etc.;
4. il contributo dato alla rinascita dell'etica medica dal Magistero della Chiesa Cattolica(PIO XII, PAOLO VI, GIOVANNI PAOLO II) e dalla teologia protestante: l'etica teologica sviluppatasi dopo il 1965, svolse un ruolo determinante(tra il 1970 ed il '75) nel lavoro della "National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research".In seguito vennero coinvolti nelle discussioni sull'etica medica i filosofi morali;
5. la sperimentazione senza scrupoli verificatasi negli USA:
nel 1966, con l'innesto di cellule tumorali su pazienti anziani, al Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklin;
nel 1971, il virus dell'epatite virale venne iniettato a bambini al Willbrook State Hospital di New York, etc.;
6. la scoperta nel 1971 del DNA ricombinante, con le conseguenti possibilità sia di geneterapia che di interventi alterativi del patrimonio genetico;
7. la scoperta e l'incremento di "facili" tecnologie riproduttive(IA, FIVET, GIFT).
A ciò si devono aggiungere naturalmente tutti quei documenti elaborati nelle moderne Costituzioni ed Organismi Internazionali ed Europei sui diritti dell'uomo, troppo numeosi per essere citati dagli anni '50 in poi; noti oltretutto perché costituiscono il vero e proprio itinerario comune a tutti i codici deontologici oggi più diffusi e comunemente accettati, anche nell'ambito più pluralistico.
Veniamo quindi a prendere in considerazione la Bio-etica da un punto di vista più speculativo: come riflessione teorico-etica applicata all'ambito bio-medico, se ha i caratteri di metodicità, ordine logico e completezza, essa può essere definita una vera e propria scienza, anche se solo in parte di tipo sperimentale.
Essa costituisce appunto un "ponte" tra scienze sperimentali e scienze umane, in quanto serve appunto a superare il limite del metodo sperimentale, che poggia su fatti e dati di ordine esclusivamente quantitativo, perchè riduce tutta la realtà in termini osservabili e verificabili.
Tale riduzionismo ( sul quale è stato elaborato anche il principio della falsificazione come metodo di verifica: se resiste alla "falsificazione", vuol dire che è vero) è appunto quello che va superato in ambito biologico per accedere alla questione etica: e qui si fa appello alla bioetica, come "recupero del valore dell'uomo"(secondo l'espressione di K.JASPERS, filosofo esistenzialista).
Sotto la spinta delle esigenze del progresso tecnico-sperimentale, e dell'elaborazione dei "diritti del malato" all'interno di quelli dell'uomo in genere, si sente cioé l'esigenza dell'aspetto etico come momento integrativo della visione della realtà offerta dalla scienza biologica e medica.
L'istanza etica è necessaria non solo al momento applicativo, ma è anche intrinseca(scrupolo metodologico, esigenza di veridicità); è istanza progettuale e metodologica(che tenga nel dovuto conto non solo i fini ma anche i mezzi); è istanza integrativa, che tiene conto del suo soggetto-oggetto in tutta la sua complessità ed interezza.
Il fatto sperimentale va cioé integrato con il valore supremo che vi è in gioco, che in definitiva è lo stesso essere umano.
Carattere centrale ed essenziale dell'etica, in generale, è di poter essere non solo universale come scienza ma anche normativa.
Essa attinge questo suo carattere nell'unicità della natura umana, il cui carattere specifico e fondamentale è il suo essere una vivente unità fisica e meta-fisica, materiale e spirituale, cioé una unità bio-intellettiva: capace cioé di una terza dimensione, quella intelettuale-spirituale, oltre a quella bioogica e psichica, dimensioni inscidibilmente unite appunto, in un solo essere vivente, l'essere umano.
Considerare l'essere umano come una unità su due piani, fisico e meta-fisico, non significa però necessariamente, ridurre la totalità dell'uomo ad una totalità psicofisica, come pretendono di fare certa psichiatria o medicina psicosomatica, quando eliminano una dimensione tipicamente umana come quella spirituale: anzi, come è stato affermato, è proprio grazie a questa terza dimensione che l'essere umano riesce a "distanziarsi" da se stesso in quanto organismo psico-fisico, in una parola ad esistere.
Questa "umanità" ogni essere umano l'ha in comune con tutti gli altri, in questo senso tutti gli uomini sono uguali, e sono possibili quindi delle leggi che tutelino ogni uomo nei diritti che gli competono per il solo fatto di essere uomo.
Certo ogni unità bio-psichica ha un suo progetto di sviluppo autonomo, diverso per ogni individuo, definito sin dall'inizio nelle sue linee strutturali, che fa di ognuno un soggetto unico ed irripetibile.
Ma apprezzare adeguatamente le differenze che caratterizzano ognuno, non significa che l'acquisizione di un patrimonio di norme comuni sia impossibile o svilisca la dignità individuale: è una forma di stoltezza già rilevata ab antiquo:"Lo stolto egoismo degli uomini limita erroneamente l'idea di possesso e di proprietà e fa credere a ciascuno che non sia veramente suo ciò che ha in comune con gli altri. Invece il sapiente giudica che nulla sia così suo, come ciò che egli ha in comune col genere umano" .
Quello che accomuna ogni essere umano, differenziandolo dall'animale, oltre ad una specifica qualità dell'intelligenza è la capacità di una autoregolazione individuale: di un comportamento, cioé, che non sia determinato da fattori biologici o di "specie", ambientali o culturali.
E' per questa ragione che ogni uomo ha pieno diritto alla libertà, cioé alla possibilità di autoregolarsi e di essere responsabile di sè stesso, realizzando in pieno la propria natura.
E' possibile quindi riscontrare, al di sopra delle varie teorie etiche o principi religiosi, un primo minimum etico nel principio di responsabilità.
Il fondatore dell'idealismo tedesco, W. HEGEL(177O-1831) diceva che la filosofia è "il proprio tempo appreso col pensiero".
Possiamo concordare con questa affermazione, per sottolineare che un'approfondita riflessione filosofica, unita all'acquisizione dei più recenti dati scientifici, è indispensabile nell'ambito della bioetica non solo per fornire la "giustificazione teorica" delle tendenze, delle norme o delle dichiarazioni giuridiche; ma anche per chiarire le teorie etiche che stanno alle basedi qualsiasi posizione o scelta o soluzione di carattere bioetico.
Questo vuol dire, che la bioetica non è solo "scienza" ma per sua stessa natura è chiamata ad essere in qualche modo "sapienza".
Per POTTER, uno dei primi ad occuparsi di bioetica, tale "nuova scienza" si dovrebbe occupare dei "nuovi valori": la sopravvivenza dell'uomo nella biosfera e la qualità della vita.
Ma la bioetica non può essere solo questo, non è vera scienza se non ha un carattere sovra-temporale nel suo fondamento e nelle sue strutture: tale carattere centrale che consente alla bioetica di poter essere normativa ed universale essa lo attinge, come si è detto, dalla stessa unicità ed universalità della natura umana.
Ciò non vuol dire che la fonte di valore ultima sia l'individuo sganciato da qualsiasi realtà che non sia soggettiva o relativa a sè medesimo(ognuno è valore per sé, ha la sua morale individuale); ma lo è l'uomo, ogni essere particolare che ha in comune con tutti gli altri la sua umanità.
Tale impostazione, non individualistica ma per così dire umanistica, è capitale per due motivi:
1) consente di ritrovare un minimum etico nel pluralismo etico in cui siamo immersi, che spesso viene inteso non come proveniente da una ricchezza di pensiero e di dialogo, ma da un'anarchica esaltazione della coscienza individuale, al di fuori di qualsiasi ordine di concetti: come se, per il fatto che ognuno ha il diritto di professare le idee che ritiene giuste, ne conseguisse che una cosa è giusta solo per il fatto che viene difesa sostenuta o professata da qualcuno;
2) su di essa si può costruire una reale possibilità di comune accettazione dell'auto-regolazione individuale, nel momento stesso in cui si valorizza l'umano : si sottolinea cioé la capacità dell'essere umano (differentemente dalle specie animali) di autodirigersi a prescindere dai semplici istinti della propria natura biologica e dalle influenze ambientali.
A base di un'autentica bioetica, sta insomma il riconoscimento di una natura umana con una "capacità morale", capacità singola e anche collettiva, cioè, di:
Nessuno può misconoscere all'uomo tale capacità intrinseca o vietarne l'esercizio: è questo appunto, come si è detto, che fa della libertà il carattere costitutivo e imprescindibile dell'essere umano.
Per inciso, si può notare come il suddetto schema di etica (che fa di un qualsiasi atto dell'uomo un atto responsabile, pienamente libero, quindi etico, perfettamente umano), sia anche applicabile anche a quel procedimento tipicamente umano che è lo scientifico in quanto tale, fatte salve le debite proporzioni: sostituendo i "dati" ai "beni", i "fatti" alle "azioni, e così via.
Quanto detto finora, presuppone che qualsiasi dottrina morale (o teoria della legge e dell'obbligazione morale) sia astratta e retorica, se non è accompagnata da un corretto esame della natura del soggetto, cioé dell'essere umano.
Tale esame fornisce la reale conoscenza dei mezzi per raggiungere il fine dell'uomo, che è il progressivo potenziamento del valore che l'uomo stesso è( che corrisponde alla sua felicità): a sostenere apertamente queste tesi, è stato anche un illustre pensatore italiano dell'800, Antonio ROSMINI(1797-1855).
Egli afferma che alla norma non è sufficiente essere conosciuta per essere tradotta in pratica, il che sembra di una evidenza lapalissiana; ma dal punto di vista della storia del pensiero, l'asserzione che la conoscenza sia condizione necessaria e sufficiente all'azione ha una precisa denominazione(gnosi > gnosticismo) ed un lungo decorso, che va almeno da PLATONE(428-354 a.C.) fino a I. KANT(1724-1804).
Nello specifico ambito morale poi, la tentazione di credere che basti la conoscenza della norma o della sua giustezza per determinare l'assenso della volontà, è sempre ricorrente.
Ad essa fa da contrappeso, di fronte all'evidenza del fatto che la conoscenza del bene spesso non è sufficiente a sceglierlo e attuarlo, la convinzione altrettanto superficiale che non sia possibile conoscere ed attuare delle scelte buone, oggettivamente ed universalmente morali.
Tali posizioni derivano proprio dalla non adeguata conoscenza della natura del soggetto della scelta morale, cioé della natura dell'uomo; lo studio di essa deve logicamente precedere, in ambito etico e bioetico, quello sull'oggetto(sempre vario) delle scelte morali.
E' quanto sosteneva Rosmini sin dall'inizio della sua speculazione; egli afferma per di più che, svisando la realtà della natura umana in tutte le sue componenti(ordinate a formare una perfetta unità), si perdono possibilità ed occasioni preziose, se non uniche, per raggiungere il fine suddetto, cioè la felicità: perché in ogni caso, l'etica è per l'uomo, e non viceversa(secondo una posizione conosciuta come deontologismo o semplice "moralismo").
Quel che si deve prendere in esame, però, non è certo "l'uomo della filosofia" ma l'uomo concreto e reale, il soggetto individuale vivente, soggetto "animale" ma dotato di intelletto per sua natura(cioé intellettivo), in quel tutt'uno che è la persona: che è anche il soggetto della medicina, la quale nel prendere in cura un uomo non si preoccupa soltanto dei singoli organi malati, ma del malato.
Non si tratta di individuare "la parte più nobile" o "la sede della personalità individuale" nella mente (anche se è appurato che è il cervello, che biologicamente presiede a tutte le funzioni e le coordina).
Piuttosto si tratta di riconoscere che senza il libero e responsabile esercizio dell'intelligenza personale, attuato attraverso i sensi (l'animalità, chiamata da Antonio Rosmini "atto di sapienza divina"), è impossibile all'uomo quel reale "potenziamento di sé" (espressione più dinamica di "realizzazione"), che gli permette di adempiere al suo dovere di essere veramente umano (cioè giusto,"buono"), e di conseguire quel totale appagamento ("felicità"), di cui ogni uomo sperimenta la "suprema necessità".
Delineare in modo corretto tale questione, consente di superare quel dilemma imposto già dall'etica stoica(in contrapposizione a quella epicurea): secondo la quale la felicità consiste non nel piacere ma nella virtù, cioè in una vita conforme alla nostra natura, cioè "secondo ragione"(come sostiene anche L.A.SENECA,4-65 d.C., nel suo: De vita beata ).
Un'attenta osservazione e valutazione della natura umana, permette di accertare che essa non consiste unicamente o principalmente nel conformarsi alla ragione; e che la felicità dell'uomo non necessariamente contrappone piacere e virtù.
Allo stesso modo, in tutte le questioni poste dalla Bioetica, una simile impostazione potrà consentire di trovare le soluzioni giuste - per quanto difficili e sofferte - a dilemmi di primo acchito insuperabili, quali sono posti da valori come l'assoluto rispetto della vita e della libertà umane, il progresso delle scienze e la salvaguardia di norme per il bene comune, e così via.
Modalità di applicazione dell'etica nella pratica medica
Esame di un caso clinico dal punto di vista etico:
A Identificazione dei dati medico-scientifici e dei Codici di riferimento:
Criteri scientifici, clinici, etc.
Codici di etica professionale
B Identificazione dei dati etici e dei
C valori in gioco, sulla base di un modello etico di riferimento.
La medicina si è sempre distinta come facente riferimento per sua natura a principi etici originari, non solo quello negativo dell'alterum non laedere ma quello positivo dell'alios iuvare.
Anche nell'ambito della medicina quindi, come nel dibattito bioetico ed in quello giuridico attinente a questioni di bioetica, la questione fondamentale è: chi è l''altro?
A differenza di tutti gli altri esseri naturali che agiscono secondo leggi, l'essere umano è l'unico ad agire secondo la rappresentazione di una legge, e le azioni umane sono le uniche ad essere orientate da valori e guidate da norme.
I vari codici e modelli giuridici sono a loro volta orientati da modelli culturali, frutto di idee ed elaborazioni di pensiero, di evoluzione di mentalità e di costumi sociali frutto a volte di secoli, ma a volte anche di decenni, come dimostra la storia più recente: data l'accelerazione subita dalle possibilità di diffusione delle informazioni, con il conseguente predominio dei modelli culturali che ne detengono i canali, almeno in Occidente.
Proprio a questi modelli culturali, propagati spesso in modo acritico quanto massiccio e supeficiale dai mass-media, si relazionano come è noto le scelte individuali e gli orientamenti collettivi, specialmente nel campo dell'etica applicata alla ricerca biomedica ed alla medicina.
Prima di affrontare il discorso sulla bio-etica, occorre quindi per lo meno accennare a questi modelli etici di riferimento, i più diffusi nel nostro ambito socio-culturale.
Nella prassi medica, scientifica e clinica delle società contemporanee, la maggior parte delle scelte di tipo etico si possono distinguere in base al riferimento di fondo ad un modello etico particolare, che si rifà ad una propria concezione del "chi è" il soggetto dell'etica e delle sue applicazioni.
Tali modelli, che possiamo mentalmente distinguere sulla base delle scienze umane (filosofia, storia, psicologia, sociologia, etc.), in concreto si possono trovare variamente compresenti e mescolati a livello sia individuale che sociale.
Ciò rende maggiormente evidente la necessità di identificarli, chiarirne le origini ed i presupposti di origine teoretica o storica, evidenziarne il nucleo centrale, metterne in luce le conseguenze pratiche, evidenziarne infine, tramite un primo esame critico, le positività ed i limiti.
E' quanto si è tentato di fare, fornendo uno schema che, per quanto scarno, favorisca la consultazione ed il confronto tra i vari modelli etici di riferimento, che anche in base alla letteratura in merito si possono distinguere in alcune tipologie:
1) liberal-radicale
2) pragmatico-utilitarista
3) socio-biologista
Matrice comune: "etica senza verità", presupposto ideologico per il quale la verità, da cui derivare una norma morale uguale per tutti, o non esiste o è impossibile conoscerla, pur usufruendo dell'intelligenza razionale.
4) personalista
5) religioso (cattolico, cristiano, ebraico, musulmano, etc.)
Matrice comune: data la legge naturale inscritta nell'uomo(da Dio), è possibile e doveroso approdare in campo etico ad una verità - ad una percezione intellettuale del valore - che per quanto parziale è reale, ed obbliga quindi la coscienza singola e collettiva a far uso di esperienza morale, razionalità e volontà per applicare norme-pilota ai casi specifici.
Origine storica: Illuminismo
Tesi:la libertà da qualsiasi condizionamento (specialmente sociale:cfr. J.J.ROUSSEAU (1712-1778) è il massimo valore; moralità = libertà assoluta (cfr.H. MARCUSE, 1898-1978)
Conseguenze teoriche:
Conseguenze pratiche:
Esame critico: è vero che non si può parlare di scelta etica se non in un quadro di libertà, ed in questo senso la libertà costituisce la specifica essenza che qualifica la natura umana; ma non per questo è automaticamente etico tutto ciò che favorisce qualsiasi tipo di libertà o liberazione, purché "liberamente scelto".
L'autonomia e la responsabilità della scelta personale, non significano autosufficienza da qualsiasi regola naturale, morale o civile.
La libertà è insomma condizione necessaria ma non sufficiente perché l'atto sia morale, cioé conforme alla dignità di chi lo compie e di chi lo subisce.
Il diritto alla vita precede il diritto alla libertà(logicamente ed effettualmente: solo chi è- esiste,vive -può essere libero); il diritto alla libertà è invalido quando è unilaterale, cioé non rispetta la vita e la libertà altrui.
La responsabilità è implicita nella libertà: ogni atto veramente libero implica una scelta, ogni scelta ha un contenuto di cui il soggetto si fa carico(è responsabile).
Il corpo umano, dal suo inizio alla sua fine, per sua intrinseca dignità non può andare soggetto a leggi di mercato, in ogni sua parte, in quanto pur essendo composto di materia non è una "cosa": ha un valore intrinseco e specifico in quanto la persona umana è anche il proprio corpo.
Origine storica: empirismo inglese(LOCKE, 1632-1704; HUME, 1711-1776); pragmatismo americano, etica socialista(utilitarismo sociale).
Tesi: è etico ciò che è utile e piacevole (benessere/utilità = massimo valore)
Conseguenze: - massima attenzione al rapporto costi-benefici
- giustificazione dei mezzi rispetto al fine
- Positivismo giuridico: è giusto ciò che è comandato
dalla pubblica utilità ( iustum = iussum )
- il cosiddetto Principio della Qualità della Vita ha
netta prevalenza sul Principio della Sacralità
(ovvero: intangibilità, non-disponibilità) della Vita
Esame critico: risulta impossibile utilizzare il criterio pragmatico-utilitarista come ultimativo, nel caso di conflitto di valori.
Tale criterio non tiene sufficientemente conto del computo "rischi-benefici" in rapporto alla vita umana, subordinando al calcolo il rispetto della persona. Certamente "il principio basato sulla valutazione<<costi-benefici>> è valido e doveroso a patto che sia applicato ad un medesimo valore", come fa il chirurgo quando si tratta della vita o della salute di un paziente o un imprenditore che investe dei capitali: ma si scivola nell'utilitarismo quando si comparano valori non omologabili, come la vita o la salute umana e l'utile economico o scientifico. Allora la valutazione dei costi va inevitabilmente incontro al rischio di monetizzazione" della vita umana.
Applicazioni: utilità della sperimentazione su embrioni umani; trapianto da malati in coma irreversibile; scelta preferenziale di malati giovani per l'assistenza ospedaliera; scelte di politica sanitaria (spesa per macchinari, reparti, etc.) determinate essenzialmente dalla valutazione dei costi; mancata assistenza ai neonati sottopeso o malformati: (esempio riportato dalla rivista :"Pediatrics", USA, I984: sono stati lasciati morire 24 bambini tramite il sistema"non-food ", in base alla tesi : perché un soggetto venga accolto deve avere un certo quoziente di qualità di vita, precisamente secondo la formula:
QL = NE x ( H + S )
Qualità Vita = Numero Malformazioni x (spese Hospital + Society)
Origine storica: evoluzionismo(C.DARWIN, 1809-1882), materialismo dialettico(K.MARX, 1818-1883), sociobiologismo(H.HEISENK-E.WILSON)
Tesi: è l'evoluzione socio-biologica che deve fornire le indicazioni per l'etica (progresso= valore discriminante)
Conseguenze: per favorire il progresso globale della specie (umana) è lecito trascurare l'individuo (la persona concreta) come avviene già in natura ("gene egoista");
- non esiste la superiorità di una specie(es. del genere umano) rispetto a quella animale o al complesso della biosfera;
- il progresso della specie (in senso biologico) inevitabilmente non è tenuto a tener conto nè di tutti gli uomini(es.:possiamo eliminare la talassemia o altre malattie ereditarie eliminando in grembo materno i portatori, anche sani) né di tutto l'uomo(es.:eliminazione degli handicappati fisici nel grembo materno indipendentemente dalle loro doti non-fisiche, intellettuali o spirituali);
- teoria "immortalista": sono valide le cure non solo corporali ma genetiche, per il prolungamento massimo e ottimale dell'esistenza fisica.
Esame critico : il pregiudizio "scientifico" di base è che non esista altro che la materia, che per quel che riguarda la specie animale, attraverso vari stadi del suo sviluppo si evolverebbe in "psiche", ovvero capacità di attività spirituali (emotive, razionali, etc.), tipicamente umane; non esiste una "specificità" della natura umana che non sia di ordine bio-neurologico.
Ma tali asserzioni non sono assolutamente provate scientificamente (sperimentalmente), mentre risultano contrarie alla logica, all'esperienza (natura non facit saltum) ed alla storia delle culture e civiltà umane.
La morale viene in questo caso ridotta a pura giustificazione e "frutto" del "progresso" della specie o della "qualità"(prima di tutto in senso biologico e sociale) di vita individuale.
Ma: chi stabilisce ciò che è "progressivo" e "migliore"? E su che base?
Infine, appare inevitabile il "riduzionismo antropologico": le condizioni fisico-biologiche ottimali, ovvio presupposto della possibilità di sviluppo delle qualità umane, diventano il valore primo e prevalente per qualificare la stessa "umanità "di un essere vivente della "specie umana"(es.:quando le condizioni biologiche non permettono l'espressione di attività superiori, non si può parlare di essere umano, come nel caso di anencefalici, comatosi in stato vegetativo persistente, portatori di handicap psichici gravi, etc.). L'essere umano viene ridotto ad un semplice elemento dell'universo fisico, ad un momento dell'evoluzione del cosmo.
Applicazioni: libertà di soppressione della vita(eutanasia) non più "di qualità" sufficiente per essere definita umana: vita propria o altrui , anche in prospettiva di un utilizzo degli organi.
Scelte di politica sociale, nazionale o internazionale, determinate da motivazioni ecologiche(es.:preservazione dell'equilibrio della biosfera, protezione specie animali e vegetali etc.) più che umanitarie(es.:assistenza gratuita all'individuo mancante di beni essenziali alla sopravvivenza).
Liceità dell'ingegneria genetica applicata alle cellule germinali(sperimentazione per il miglioramento della specie umana o dell'individuo).
Origine storica: cristianesimo, metafisica classica, personalismo, genetica contemporanea
Tesi: il massimo valore è l'essere umano vivente ("uni-totalità" bio-intellettiva in qualsiasi suo stadio o stato, vale a dire: persona)
Conseguenze: concezione integrale della corporeità(cfr.G.MARCEL, 1889- :"Io sono il mio corpo")
- difesa della vita fisica come valore fondamentale(non supremo)
- principio della globalità o terapeutico
- principio di responsabilità personale
- principio di socialità e sussidiarietà
- l'essere umano concreto è sempre "fine", mai "mezzo"
Esame critico:
La moralità consiste nel rispetto libero e reponsabile dellessere umano, in sé e negli altri: l'essere umano come individuo di una natura specifica, dotata di un particolare ordine sia biologico che morale, come si evince dallo studio sistematico delle sue caratteristiche ed inclinazioni (tendenze verso il proprio bene), sia biologiche che meta-fisiche(nel senso etimologico di :"al di sopra della natura fisica").
Il primum etico comune a tutti gli uomini(universale), ha il suo fondamento in quella realtà che è la natura specifica dell'uomo(non solo biologica ma meta-fisica:intellettuale,spirituale etc.), con le regole in essa inscritte ("legge naturale") che vengono riconosciute e sancite dal diritto positivo.
Tramite l'esercizio dell'intelligenza(esperienza e razionalità), è possibile risalire ad una evidenza normativa(verità): "la persona va rispettata per sè stessa". Tale norma-pilota diventa regola dell'agire, in quanto esprime chiaramente la nostra conoscenza dell'essere umano nella sua più autentica dignità, quella di persona: vale a dire di essere capace sia di percezione intellettuale del valore (conoscenza morale, e religiosa) sia di azioni liberamente conformi ad essa(scelte ed atti etici).
Nell'applicazione ai diversi casi specifici, il valore etico dell'atto è dato dalla sua conformità, liberamente scelta, alla norma superiore: la quale si presenta come norma-precetto in quanto avverte dell'obbligo di fare o non fare in conformità al valore della persona.
Si tratta di un autentico modello conoscitivo, principalmente di tipo non logico-matematico né sperimentale: che accetta cioé come conosciuto anche ciò che non rientra in una dimensione "verificata sperimentalmente", ma bensì "esperito interiormente" e verificato attraverso l'uso di ragione.
Al modello personalista si ispirano gli attuali codici deontologici nazionali ed internazionali, la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e la Costituzione italiana.
Esso infatti, prendendo a fondamento la specifica unicità della natura umana, presuppone la possibilità dell'etica come scienza normativa e presume perciò come possibile l'accoglimento di un codice etico non solo individuale ma comune: vale a dire del diritto, strictu sensu ed in senso lato.
Esso inoltre esalta il valore della libertà anche come rapporto intenzionale (con l'Assoluto, con l'altro, con l'io), collegandolo con quello di responsabilità personale; dà perciò tutto il peso che merita alla scelta etica individuale, di cui ognuno è chiamato a rispondere: a sé stesso, agli altri, a Dio.
Rifiuta infine il "palleggiamento" dei principi (Principalism) ed un compromesso di principio tra le varie etiche relativistiche (dell'intenzione, dell'emozione, etc.), che andrebbero tutte sancite dal diritto in nome di un "pluralismo", inteso non come espressione di una ricchezza di pensiero, ma come esaltazione della coscienza individuale in maniera anarchica, al di fuori di qualsiasi ordine di concetti.
Applicazioni: il modello etico personalista propone il rispetto totale della vita umana in quanto dovuto alla persona umana, individuo di tipo unico ed irripetibile, sin dall'inizio e fino alla fine del corso naturale della propria esistenza.
Tale rispetto viene voluto come frutto di una scelta di coscienza, libera ed individuale, sostenuta però da corrispondenti politiche sociali e sanitarie.
Esso si oppone perciò: all'aborto anche eugenetico o "terapeutico"(salvo nel caso di inevitabile conflitto con la vita della madre); alla sperimentazione sull'embrione a scopo non terapeutico; alla manipolazione delle cellule germinali; alla clonazione; all'eutanasia; all'accanimento terapeutico; alla fecondazione in vitro con eliminazione di embrioni; alla fecondazione eterologa; al commercio del corpo umano o di sue parti.
Origine storica: relativa alle diverse religioni
Tesi: esiste un DIO creatore e quindi legislatore dell'universo, che porta impresse in natura le proprie leggi, che Dio ha inoltre manifestate all'uomo in varie occasioni.
Conseguenze: è etico il riconoscimento di Dio e del Suo volere (espresso attraverso l'ordine naturale, i Comandamenti, la Rivelazione, il Sacro Magistero).
L'etica non può prescindere dal rapportarsi (=religare > religio) con l'Altro, l'Unico assoluto e infinito, cioè Dio, anche perché la fede autentica è una dimensione che coinvolge ogni sfera dell'esistenza.
E' etico il rispetto dell'altro anche come rispetto della volontà di Dio, dell'uguaglianza di tutti come Suoi creature e figli.
Il comportamento etico perseguito coscientemente ha conseguenze non solo personali, civili o penali, ma religiose: nell'ambito della comunità cui si appartiene e specialmente da parte di Dio, in particolare dopo la vita terrena.
L'essere umano può conoscere il bene ed il male, ed è tenuto ad attenersi alle indicazioni divine, espresse dalla tradizione religiosa e dalla sua coscienza, che è il luogo ultimo ma non unico delle scelte individuali: tutto ciò costituisce per lui un aiuto imprescindibile per attuare e praticare scelte morali.
Religione cattolica
Richiama all'interiorità della morale come rettitudine del cuore o dell'intenzione, da cui nasce l'atto personale di libera accettazione della legge morale, codificata nei Dieci Comandamenti(Decalogo) e compendiata nel comando: "Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ".
"La vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti dell'uomo. E' una risposta d'amore, secondo l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio:<<Ascolta, Israele:il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo:Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze>>".
Per tale precetto della charitas il cristiano non aspetta di amare le cose o persone perché pregevoli o conosciute, ma perchè"sono": riconosce loro un essere in ordine al quale "valgono", le ama cioé in quanto volute ed amate da Dio.
La tensione verso ciò che è (l'altro, il vero, il buono, il bello) è insita nella natura umana, creata da Dio a Sua immagine, ma viene potenziata dall'azione di Dio nell'uomo("grazia"), che rende possibile anche la realizzazione di un comportamento veramente etico: per il quale l'uomo supera la sua stessa natura, non solo limitata ma egocentrica(lesa dal peccato oiginale), ed è reso capace di adempiere al comando proprio di GESU' CRISTO: "Questo è il mio comandamento, che vi amiate come Io (Dio-Uomo) vi ho amati"(Gv. 15-12).
Tuttavia, "imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli:<<Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore>>(Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo <<frutto>>(cf. Gal 5,22) è la carità:<<L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato>>(Rm 5,5)".
Tale enorme capacità di amore cioé, più divina che umana, "è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi", viene gratuitamente data(gratis data = grazia)proprio da Gesù e in Gesù Cristo; Egli-tramite la Chiesa, per Sua espressa volontà Suo corpo mistico e sicura erede delle espressioni e degli strumenti(Sacramenti) della grazia-è la Via per giungere al Sommo Bene, a Dio, cioé per raggiungere la "salvezza", la vera Vita che non finisce, la totale partecipazione alla vita stessa di Dio.
Sul piano delle applicazioni dell'etica all'atto medico, in quanto riconosce un valore unico ed inestimabile a quel composto sintetico di anima e di corpo che è l'uomo, la religione cattolica è dichiaratamente a favore dell'assoluto rispetto della vita umana innocente in ogni stadio del naturale corso dell'esistenza; pur senza dichiararsi esplicitamente sul termine "persona", riferito all'essere umano.
Esame critico : il rigore di certe conseguenze logiche in campo etico, dovute al riconoscimento del primato della volontà di Dio per il bene dell'uomo( rivelata in Gesù Cristo ed espressa storicamente nella Chiesa), è comprensibile ed accettabile a volte(per es. nel caso del rifiuto della contraccezione), solo all'interno di una decisa e cosciente adesione alla Fede: o almeno di un radicale orientamento in direzione di un umanesimo integrale.
Religione ebraica
Oltre al Decalogo, riconosce valore etico anche all'interpretazione della Legge("Torah") data dalla tradizione rabbinica(per es., essendo stato riconosciuto etico dal recente parere dei Rabbini l'aborto eugenetico-eliminazione di feti non sani-esso è stato approvato legalmente nello Stato d'Israele).
Subordina il rispetto degli esseri viventi alle prescrizioni della Legge(per es. è contraria alle leggi in difesa degli animali quando rendano impossibili i sacrifici rituali, ed alla donazione di organi perché lesiva dell'integrità fisica necessaria per la resurrezione dei corpi).
Esame critico: sottopone il giudizio morale alla Legge scritta ed all'interpretazione singola(rabbinica), senza tener sufficientemente conto degli elementi scientifico-razionali;
tende a comandare ciò che propone ed a influenzare le tendenze generali in vista della tutela delle convinzioni di fede particolari.
Religione musulmana
Riconosce come valide in campo etico le indicazioni suggerite nel Corano, da seguire letteralmente anche in campo bioetico(per es. siccome per il Corano il frutto del concepimento non è un essere umano prima dei sessanta giorni, l'aborto è consentito in qualsiasi caso entro quella data).
Esame critico: rischia l'adozione di una sistematica intolleranza, come mancanza di rispetto delle posizioni e della coscienza altrui;
esclude la possibilità di evoluzione della coscienza morale a pro della "parola scritta"(Corano).
Rapporto tra modello "personalista" e modello "cattolico"
Storicamente è indubbia l'influenza del cristianesimo sulla nascita e sulla maturazione del modello culturale incentrato sul massimo rispetto della persona umana in quanto tale, indipendentemente dalla differenza di sesso, classe sociale, appartenenza etnica o religiosa, etc.
Con l'evoluzione della civiltà e delle società che l'hanno fatto proprio, questo modello si è andato però rendendo sempre più autonomo: non solo perché si basa su elaborazioni razionali e culturali proprie, ma anche perché viene visto come caratteristico di una società civile in quanto tale; ha acquisito cioé una sua fisionomia che, sebbene non del tutto definita, ne permette l'indipendenza dalla matrice originale, quella di carattere religioso.
Appare tuttavia eccessivo sostenere che tale modello "umanitario" è completo ed esaustivo, che non ha bisogno quindi del confronto continuo con realtà e modelli di riferimento diversi, per esempio con quello stesso proposto dalla Chiesa cattolica: questa presunta "autosufficienza" si qualificherebbe come un assolutismo ingiustificato e razionalmente non sostenibile, e di fatto spesso si rovescia nello scetticismo e nel disprezzo pratico delle più elementari regole circa il rispetto dell'essere umano.
La religione cattolica a sua volta, riconosce una piena autonomia alla sfera della ragione e dell'azione dell'uomo, favorisce il dialogo e la cooperazione conaltri modelli culturali in vista di obiettivi comuni; ma certamente non può accettare l'opinione che l'uomo "basti a sè stesso" e sia capace di realizzazioni pienamente umane facendo "come se Dio non esistesse", né può accettare di essere esclusa dal dibattito e, tramite l'azione ispirata dalla fede dei cattolici, dal piano dell'incidenza sociale e civile: in caso contrario, non sarebbe fedele non solo al Dio in cui crede ed al mandato ricevuto da Gesù Cristo, ma neanche all'uomo stesso, di cui si preoccupa di promuovere tutto il bene.
L'etica personalista, pur accettando ed anzi sollecitando il confronto con quella di tipo religioso, pone alla propria base il tipo di conoscenza oggettiva di cui l'essere umano è capace, sulla quale appunto si fonda la sua "capacità morale".
A questo proposito è
opportuno citare una posizione
concettuale tanto originale nel suo
difficile equilibrio, quella di Antonio
ROSMINI, creatore e fautore nel
secolo scorso di un pensiero filosofico
pienamente autonomo rispetto alla
fede; ma anche fondatore di un Istituto
religioso e sacerdote fedelissimo
alla Chiesa cattolica(che pure, dopo la
sua morte, condannò
ufficialmente quaranta proposizioni tratte dai
suoi scritti).
Pur
affermando la piena autonomia(non autosufficienza) dell'intelligenza
e
della ragione dell'uomo, egli non nascondeva tuttavia la sua ferma
convinzione
che: essendo l'uomo non fattosi da sè ma gratuitamente
"dato",
cioé creato, ha un inscindibile rapporto con il
suo Creatore, talmente
connaturato con il proprio essere umano, che senza
questo rapportarsi(re-ligarsi)
libero e reciproco(che da parte di
Dio è la grazia), l'uomo non può
realizzarsi in tutte le sue
potenzialità, non ha neanche tutti i
mezzi per raggiungere tutto
l'appagamento del suo essere (felicità).
L'indagine sull'uomo, inteso nella totalità della sua natura enella integralità delle sue relazioni e dei suoi doveri, se condotta in modo corretto arriva a postulare la necessità del dono divino, quale condizione perché l'essere creato possa conoscere positivamente l'Essere increato ed adempiere quindi "perfettamente" la legge morale".
Ma anche il semplice dono della intelligenza include una conoscenza di Dio di tipo "negativo", ed una capacità morale data dalla conoscenza dei beni "oggettivi", nel loro ordine interno(razionale e gerarchico), per es.: esseri privi di intelligenza, uomo, Dio.
Rosmini anzi afferma che è una speciale facoltà dell'intelligenza, la "ragione integrativa", quella che permette alla mente umana di risalire dall'effetto alla causa, e quindi di ripercorrere tutto l'ordine dei beni oggettivi e, amandoli, risalire dalle creature alla prima e suprema intelligenza: Dio .
Da un'impostazione di antropologia filosofica coerente e non chiusa pregiudizialmente ad un piano meta-fisico, si possono dunque evincere alcuni punti fondamentali:
a) l'essere umano, tramite l'esercizio della sua razionalità o volontà, non "crea" la norma morale ma è chiamato a riconoscerla e ad attenervisi;
b) quando la morale passa "dal piano scientifico e normativo ad esprimersi sul piano pratico", si arresta di fronte ad una difficoltà-la personale persuasione e quindi il libero assenso- che da sola non riesce a superare(da cui l'impotenza dell'imperativo categorico e la necessità della "grazia");
c) la ricerca morale non procede in modo legittimo quando non tenga conto di tutto l'uomo, in base al pregiudizio a-scientifico di non poter tenere in considerazione anche l'elemento meta-fisico o sopra-naturale, cioé non puramentre materiale: col pretesto che esso non fa parte dell'ambito "puramente" speculativo perché non è dimostrabile "scientificamente", vale a dire sperimentalmente.
Ma tale esclusione è arbitraria e quindi inacettabile, in quanto dà per scontati due principi non dimostrati, nè razionalmente nè scientificamente:
primo, che la razionalità è la dimensione esaustiva dell'uomo;
secondo, che la natura biologica o materiale è l'unica natura dell'essere umano.
Etiche empiriche ed etica cognitiva
Le etiche empiriche fanno capo come si è detto al comune concetto di una "Etica senza verità", il che vuol dire in definitiva che tutti i principi morali sono ugualmente veri ed ugualmente falsi.
Già F. NIETZSCHE (1844-1900) affermava, nel suo famoso Al di là del bene e del male, che non esistono fenomeni "morali", ma esiste un linguaggio umano su fenomeni umani: i fenomeni morali sono flatus vocis.
Quale sarebbe dunque il compito del pensatore? Egli dovrebbe limitarsi a dedurre principi rigorosi da principi primi arbitrari(anche irrazionali): è questa la tesi della cosiddetta filosofia analitica.
Per principio, senza ulteriori dimostrazioni, si assume così che l'atteggiamento morale non consiste nel conformare il proprio agire a scelte sostenute da motivazioni oggettive(fondate sulla riflessione etica, di tipo sperimentale e razionale); ma piuttosto nel trovare razionalmente una motivazione che giustifichi(="dimostri" o "renda" giusto) il comportamento scelto (in quanto appare più utile, piacevole, logico, etc.).
Alla base di questa concezione vi è palesemente la convinzione di tipo hegeliano che il procedimento logico dialettico, l'attività razionale, non tanto "riconosce" quanto "conferisce" la realtà al suo oggetto.
Da ciò deriva per esempio la tesi(sostenuta oggi in Italia tra gli altri da Eugenio LECALDANO, la cosiddetta etica empirica), che tutti i bisogni e desideri vanno esauditi, purché ciò avvenga nel rispetto della pari libertà (quella degli altri quanto la mia, come diceva I. KANT).
Altra posizione nello stesso ambito è quella che cerca il grado dei valori nell'esperienza sociale(es.classico: le inchieste d'opinione): è la cosiddetta sociologia della moralità, che rinnega ipso facto un carattere normativo ed universale all'etica.
Renato DULBECCO(premio Nobel, a capo del famoso "Progetto Genoma" varato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche), l'ha chiamata "morale provvisoria"; essa prescrive il rispetto della consuetudine adottata dalla maggioranza delle persone, secondo quello che in sociologia è il "teorema di Thomas": "una cosa è vera se la gente la pensa così", è vera non "in sé stessa", naturalmente, ma "nelle sue conseguenze".
Quest'impostazione dell'etica ha alle spalle una precisa teoria gnoseologica(che riguarda cioé la gnosi, la conoscenza): è la dottrina della non-conoscibilità dell'essere o della realtà intima di ogni cosa che è, se non in campo meramente empirico.
Tale teoria-non provata empiricamente, quindi un qualche modo autonegantesi in partenza-fu inaugurata dall'empirismo inglese di J. LOCKE(1632-1704) e D. HUME(1711-1776) ed ereditata acriticamente persino da KANT, che pur si proponeva di rovesciare le conclusioni dell'empirismo.
Ma a proposito, dobbiamo notare che un elemento in comune con il procedimento empirico anche l'etica personalista classica lo ha, quando afferma l'importanza del contatto diretto con l'esperienza: proprio in quanto l'attività di riflessione etica (personale, di un Comitato etico etc.), non crea il suo oggetto ma lo assume, e lo deve interpretare in maniera razionale.
Il primum etico ha sempre un fondamento nella realtà, si fonda sull'esperienza della "verità delle cose".
La bio-etica, come ogni altra scienza, parte dall'osservazione di un fatto per accertare un dato; per scoprire cioé la lex (norma) come manifestazione di un ordo (ordine) naturale, pre-esistente al momento dell'osservazione e della ricerca(conoscenza euristica), momento che non costituisce tutta la conoscenza, se non dal punto di vista del soggetto.
Quando si parla di natura, bisogna precisare che la si può intendere in senso univoco ( la concezione di realtà di tipo positivistico: per es. la natura biologica, comune a tutta la biosfera) o anche in senso assoluto, come "espressione dell'ordine divino e assoluto della realtà", come diceva F. SCHELLING(1775-1854).
Ma col termine "natura" si può anche intender il complesso ordinato(cosmos) di realtà diverse, nel quale ognuna ha il suo essere ordinato o "proporzionato" agli altri, ha la "propria" natura ovvero la sua specifica "verità", che rende la realtà intellegibile, cioé conoscibile e comprensibile all'uomo; per chi crede, questa "intellegibilità" riflette la sapienza ed onnipotenza di una Mente unica, di un Creatore, per chi non crede può costituire una prova a favore della Sua esistenza o un interrogativo senza possibile risposta.
In particolare, occorre notare che la realtà fisica è conoscibile dalla mente umana(pur con i modi ed i tempi e nei limiti che le sono proprii), perché la stessa natura umana è una realtà con un suo ordinamento specifico, che non si può ridurre a quello generico di causalità funzionale, tipico del piano fisico-materiale: questo è precisamente invece ciò che ha fatto la rivoluzione scientifica del XVI secolo, quando con F. BACONE (1561-16427), G. GALILEI (1564-1642) e I. NEWTON (1642-1727), la scienza ha cominciato a prendere in considerazione solo la materia, come suo oggetto, qualificandosi come scienza "sperimentale".
Ma in seguito, anche il concetto di natura umana è stato declassato dal piano suo proprio, che non è solo quello materiale, e ad esso ridotto(per esempio dala scienza medica).
Sulla base di tale falso presupposto il capostipite dell'empirismo, HUME, ha potuto un paio di secoli fa sostenere un'affermazione che ancora viene accettata da alcune posizioni etiche: logicamente non si può-afferma Hume, formulando per questo tipo di ragionamento l'accusa di fallacia naturalistica- passare dall'is (è) all'ought (devo); non sarebbe logicamnte consentito cioé, trapassare dal piano dell'essere a quello del dover essere, dal fatto al valore, da una proposizione "descrittiva" ad una "prescrittiva": in quanto il vero ed il falso(anche secondo la filosofia analitica neo-positivista), sono categorie predicabili solo del fatto, cioé di ciò che è verificabile empiricamente.
Ma ciò che si dà per scontato senza dimostrarlo, da parte di Hume e dei suoi seguaci(la loro sì, è "fallacia"), è che tali piani, l'etico ed il naturale, siano sempre e comunque separati, incomunicabili, come per R. CARTESIO lo sono lo"spirito"(rex cogitans) e la "materia"(rex estensa).
Allorché da un essere naturale, perciò non-normativo, viene dedotto un dover-essere, si cadrebbe quindi nella "fallacia": ma quel che la dottrina empirica dà per presupposto(assumendolo come principio, senza mai provarlo, tanto meno sotto il profilo empirico-razionale), è che non potrebbe esistere "in natura" alcun essere che sia in sè stesso dotato di valore normativo, né l'uomo né Dio.
Non si tratta qui di non volere o non potere(col solo uso di ragione) ammettere che esista un Essere superiore, che con la sua volontà imprime un valore a "quell'aggregato di oggetti reali collegati insieme come causa ed effetto" .
Si tratta di una pretesa maggiore: cioé di dedurre in via di principio dalla natura empirico-materiale, la inesistenza in natura di realtà ideali o spirituali.
Se si accetta questo concetto "empirico-materialistico" di natura, e se da essa l'uomo non può essere eccettuato...allora non è neanche possibile per lo spirito umano alcuna conoscenza, perché "le stesse funzioni del cervello non potrebbero essere altro che scarichi di cause". Per lo stesso motivo, anche qualsiasi tipo di scelta etica o di "morale" sarebbe impossibile.
Ma a ciò è stato logicamente obbiettato che "se si contesta la legittimità scientifica dei mezzi conoscitivi per la dimostrazione dell'esistenza di realtà ideali, non è possibile usare questi mezzi per dimostrarne l'inesistenza(...) Anche qualora nella storia dell'umanità non vi fosse mai stato il riconoscimento dell'esistenza del diritto naturale, con questo non sarebbe dimostrata la sua oggettiva inesistenza" .
"La cosiddettta "legge di Hume" non è affatto una "legge", cio&ea cute; un dogma iniscutibile, oltre il quale non si possa andare. Essa è legata a una concezione meccanicistica e determinista della realtà, quale era propria della filosofia naturale e della scienza(di Newton)del tempo di Hume, e dello stesso Kant, dipendente da una particolare "metafisica", ed agganciata a una fase oggi storicamente superata dallo sviluppo della scienza".
Quello che la teoria empiristica viene a negare pregiudizialmente e senza prove, è la specificità della natura umana, alla quale è insita l'effettiva possibilità, per l'uomo, di conoscere e di seguire delle norme: insomma, di essere "umano", ed in quanto pienamente uomo, di essere "sapiens" e responsabile delle sue azioni, in modo oggettivo.
E' tipico infatti del bambino(o dell'adulto "disturbato" nella psiche), il limitare lo spazio della recezione intellettiva e soprattutto della volontà, all'ambito puramente soggettivo; volere quindi o scartare le realtà materiali o ideali captate dall'intelligenza, in base semplicemente al piacere o al dolore che se ne aspetta.
L'etica cognitiva, cioè derivata da una conoscenza che abbiamo chiamato oggettiva, comporta invece un "salto di qualità" verso la maturità dell'uomo, passo che "viene compiuto quando il soggetto si accorge che esistono altri esseri umani simili a lui(...) con gli stessi diritti. A questo punto entra in azione quella capacità dell'intelletto (rimasta finora latente) che considera le cose e le persone non più in riferimento al proprio Io, ma in sé stesse", come dice Rosmini.
Si tratta appunto della conoscenza oggettiva: si pensano gli oggetti come mettendosi "dal loro punto di vista", come trasportandosi in essi e mettendo da parte il proprio Io, il punto di vista prettamente soggettivo.
Con questa operazione dell'intelletto, per quanto possibile libero da condizionamenti interni ed esterni, gli enti conosciuti sono presentati alla volontà come beni "oggettivi", cioè beni che hanno valore per se stessi, e come tali esigono di essere voluti, stimati, amati.
Quando si mette in moto la facoltà di giudicare oggettivamente e di rispettare ed amare cose e persone quali sono veramente, in se stesse(nel che consiste poi tutta la legge morale), e non solo relativamente, in relazione o in riferimento al bene che potrebbero arrecare al soggetto, allora l'uomo diventa capace di azioni morali" . E non solo, ma anche semplicemente di azioni sociali: infatti, la prima condizione per stabilire l'imparzialità di una legge, è che essa corrisponda all'interesse generale e non solo a quello individuale.
E' dunque col presentarsi del mondo oggettivo all'intelletto ed alla volontà, che l'individuo può agire moralmente ed acquisire un comportamento sociale autenticamente civile.
L'entrata nel mondo "oggettivo" non limita le possibilità del soggetto, ma ne dilata le prospettive dell'attività razionale e ne amplia il raggio di azione: ai beni materiali e spirituali di tipo soggettivo, sui quali soltanto prima poteva cadere la scelta, ora egli può aggiungere i beni oggettivi.
Antonio Rosmini chiama "forza pratica" questo tipo di attività del soggetto pienamente dispiegata.
E' estremamente corretto quindi, per dipanare i vari problemi di etica e di bioetica in particolare, far riconvergere prima di tutto l'attenzione sull'uomo, sulla interiorità che contraddistingue la sua natura; sull'essere umano cioè, per quello che oggettivamente è(una "unitotalità" biopsichica, definita nelle sue diverse dimensioni, biologiche e non) ed è capace di essere tramite la sua attività, intellettuale morale e pratica.
Anche il Romanticismo aveva fatto riconvergere l'attenzione sull'uomo, ma in senso psicologico, soggettivo, e "naturistico", per così dire: cioè di relazione con la natura intesa come qualcosa di non-disponibile per l'uomo, che pure ne fa parte(la natura "matrigna" o Eden perduto).
Ma in mancanza di uno specifico fondamento della natura umana, riconosciuto come singolare ed unico(comune ad ogni essere umano ma non a tutto il contesto naturale vivente), un qualcosa di pregevole quindi al di là di ogni "eroico" sviluppo...in mancanza di un dato fondamento, della persona umana insomma, si è portati ad enfatizzare non l'essere ma il divenire.
Ciò era già stato teorizzato da HEGEL, che della realtà esalta il processo dinamico, il divenire, al punto da farla coincidere con esso: "il reale è razionale, il razionale è reale", egli afferma, commettendo un errore fondamentale, che consiste nella confusione tra il piano ontologico(dell'essere o della realtà data) e quello logico, consistente nel movimento del pensiero.
In realtà, sia il procedimento logico, che il processo del "divenire", il "movimento" insomma, non esistono altro che nella mente che li pensa, la quale osserva- con un movimento di pensiero-il progressivo conoscimento degli enti o svolgimento dei fatti: gli unici che realmente "sono".
In mancanza della chiarificazione del valore di una reale base biologico-spirituale insieme, che fa di ogni essere vivente della natura umana un individuo unico, cioè una persona, il concetto di persona umana viene assunto o razionalisticamente, come spirito razionale, o in senso biologico, come materia organica frutto di una specifica evoluzione: ma valido comunque non per quello che "è", ma in quanto evolvendosi diverrà un valore o dimostrerà il suo valore.
Viene accolta aprioristicamente la crasi a-scientifica, formulata dal padre del razionalismo moderno, CARTESIO, tra rex cogitans (capacità razionale) e rex estensa (funzioni biologiche): l'umanità biologica di un individuo viene vista come passiva "potenzialità materiale", puro "corredo" indispensabile al "potere di agire", il quale viene ad essere l'unico vero valore.
Di modo che, chi non ha uguali potenzialità, chi non può esercitare in pieno il suo potere di azione(razionale, morale, pratica) è inferiore, ed è anzi "bene" per lui e per gli altri che venga "escluso dalla gara", dal vivere.
La natura umana così non risulta più un valore in sé, ma "buona solo nel futuro": vale non per ciò che "è", da sviluppare o correggere, ma per ciò che "può" essere, se ne ha le condizioni, se opportunamente orientata.
Ancora: se ciò che più vale sono le possibilità di divenire un uomo di una qualità adeguata al concetto(indefinito e variabile) di una umanità degna di questo nome, se ciò che più importa è il potere di agire che permette di realizzare tale umanità(in me e negli altri), allora la cosa più importante in assoluto è la libertà, non l'essere umano concreto, vivente.
In Italia la legge sull'aborto, per esempio, è stata concepita dopo una sentenza della Corte Costituzionale che non negava al feto la qualifica di essere umano vivente(ma non:"persona"), bensì privilegiava la libertà della "madre"a disfarsene, eliminandolo: evidentemente la libertà di un essere umano adulto è stata vista come valore superiore alla vita di un essere umano non ancora nato.
Tale legge è ritenuta da alcuni un "tabù" intoccabile, anche perché c'è stata una maggioranza di cittadini che ne ha decretato la "giustezza": come se verità e giustizia dipendessero dall'opinione di uno(= tirannia) o dei molti che hanno potere di espressione e di scelta(= dittatura: di un partito, di un sistema "democratico", etc.).
Di fatto, chi pratica un aborto ricorre ad una specie di "finzione giuridica". Ammette di aver interrotto una gravidanza ma non riconosce di aver troncato un'esistenza umana vivente, una vita umana, "come se" il feto non fosse un individuo di natura umana(come scientificamente è ed evidentemente spesso appare, anche dalla conformazione morfologica): un individuo di natura umana quindi con il diritto, come cittadino, di essere tutelato nella sua vita fisica e nella conseguente libertà di vivere: come tutti, e non solo alcuni, i più forti, i più ricchi, le donne(gestanti), etc.
E' per questo motivo che si levano, anche da parte non cattolica, molte voci che affermano essere un dovere dello Stato in quanto democratico, quello di tutelare l'esistenza fisica di ogni suo membro: quanto più poi in quanto indifeso ed in condizioni di dipendenza e di difficoltà, rispetto al riconoscimento della sua fisionomia giuridica.
Né si può risolvere questa fondamentale questione, che si pone in maniera chiara ed ineludibile al diritto contemporaneo, con una "finzione giuridica" appunto, negando l'evidenza anche scientifica: che il frutto del concepimento umano sia un essere umano.
Al contrario, l'evidenza logica ed il riscontro scientifico, come si è detto, portano ad affermare l'esistenza di un unico nucleo bio-personale per ogni individuo vivente di natura umana, sin dall'inizio e sino alla fine della sua esistenza.
Un individuo che è già in se stesso un valore relativamente assoluto, si potrebbe dire: relativamente, perché nei limiti delle sue relazioni con l'Altro-da-sé, ma assoluto, perché appartiene ad un piano che trascende la sfera non-umana(semplicemente bio-fisica), e come essere umano ha titolo ad avere riconosciuti i diritti relativi.
In questa primigenia appartenenza ad un piano più complesso e quindi superiore a quello della semplice materialità: in quanto l'essere umano è per sua natura dotato di intelletto(intelligenza riflessiva, capace per astrazione di percepire una verità concettuale) e volontà morale(capacità, non condizionata da istinti naturali, di scegliere il bene intravisto dall'intelligenza), con le quali perseguire in modo coscientre e libero il proprio fine, cioé essere felice.
In questa specifica natura o essenza consiste la primitiva grandezza dell'essere umano, di ogni soggetto quindi di tale natura, ancor prima di ogni suo "divenire", o futuro sviluppo.
Se invece che in questa sua essenza specifica, il valore della natura umana viene fatto consistere nel grado del suo sviluppo, o nella sua proiezione verso il futuro...allora uomini non si è, ma si diventa.
Il valore della natura umana, la normatività prescrittiva su cui si fonda il diritto relativo alla dignità dell'essere umano, non è più ancorato al rispetto di qualcosa di realmente esistente, ma ad un "ideale" astratto di umanità, un che di futuro, ancora da realizzarsi: un modo di essere, in definitiva, che ognuno può intendere e costruirsi come meglio crede. Per cui, atti e comportamenti andrebbero comunque "accettati" solo in quanto "dell'uomo" già divenuto adulto, cosciente e libero, e "tollerati" anche se non proprio "umani", degni della sua umanità:l' essenza o dignità umana.
Ciò può essere ancora vero nella sfera della società civile, quando non vengano infrante le leggi, ma non lo è certamente in ambito etico: e non è affatto scontato che l'ambito e l'impostazione socio-legale sia sufficiente ad impostare ed esaurire il dibattito e la scelte in campo bio-etico.
Quell'essenza specifica, unica per tutti gli esseri umani, cui si è accennato, è anche l'unica possibile base di un'etica oggettiva, determinabile, sebbene non espressamente fondata sulla fede in un Dio creatore e legislatore.
Oggettiva non solo nel senso kantiano di "universale", "valida per tutti gli uomini", ma intrinseco di non-soggettiva(= arbitraria), nel senso suo proprio di "valida in sè stessa"(= giusta), in quanto fondata sull'unico essere, quello umano, che è un valore relativamente assoluto, con un apparente gioco di parole cui corrisponde invece una precisa realtà:quella di un essere vivente che è capace di moralità, con i diritti ed i doveri relativi.
Da tale specifica essenza della reale natura umana, natura personale o bio-intellettuale, è possibile quindi desumere una norma universalmente valida, anche se diversamente articolata.
La pluralità delle varie posizioni non intacca questa essenza e la norma-pilota che ne deriva, ma ne esprime la ricchezza e ne evidenzia i vari punti di vista possibili: i quali sono relativi sia alle coordinate tipiche di ogni essere umano(intelletto, volontà, fine proprio), sia ai diversi gradi di bene di cui ogni ente e ogni valore è parzialmente portatore.
Tale è anche, come si è detto, la condizione necessaria e sufficiente che consente alla Bioetica di essere una riflessione normativa e non un'inutile disquisizione accademica.
E' anche la condizione, che consente di uscire dal circolo vizioso di un'etica deontologica: secondo la quale, essere "morali" signica attenersi ad una serie di doveri-come intendeva KANT-o di principii tra loro indipendenti, che sarebbero autoevidenti("dire la verità", "non procurare dolore", etc.). Essi però sono tutti doveri o principii prima facie, validi cioé non in modo assoluto ma "in prima istanza", finché non entrino in conflitto con un altro dovere o principio(per es. "danneggiare psicologicamente", "salvare la vita in pericolo" etc.).
Questa impostazione di origine anglosassone, abbiamo visto che nel dibattito bioetico attuale ha un nome preciso: principlism, "principalismo".
Indubbiamente, dal tempo di Ippocrate, la medicina militante e la medicina legale in particolare hanno provveduto a definire quei principi di etica medica, che trovano una corrispondenza di massima in tutti i paesi. Quello a cui qui ci si riferisce è invece il "principalismo" come unica fonte risolutiva della morale applicata alla medicina, com'è stato elaborato dalla letteratura anglosassone più recente.
Ad esso è facile muover un'obiezione di fondo: nel caso inevitabile di conflitto, in base a che cosa si stabilisce una gerarchia di principi, sulla quale regolare l'azione perché sia morale?
Assumendo questo o quel principio "autoevidente" come superiore agli altri, non possono che aversi varie etiche o "punti di vista morali", ed il circuito della ricerca morale è chiuso: restano solo le varie versioni su cos'è la moralità o qual'è "la più morale" delle scelte in un determinato caso.
A chiarire la differenza tra l'ordine dei principi tradizionale ed il "principalismo", si può fare riferimento per esempio al PRINCIPIO DI BENEFICENZA, sul quale tutti sono sempre stati d'accordo ma ch'è stato di recente riscoperto e notevolmente approfondito: "fa il bene al malato, o almeno non nuocergli", recitava il codice ippocratico, e s.Tommaso:"fac bonum, evita malum".
Il dibattito riguarda piuttosto l'individuazione di cosa è il "bene" per il malato: oltre al soddisfacimento dei bisogni psico-fisici fondamentali, il bene massimo è sempre il "salvare la vita"? Fino a poco tempo fa ciò era scontato, oggi non lo è più: un medico può ritrvarsi sotto processo per aver impiantato un ano artificiale ad un paziente-con evidente scadimento della "qualità della vita"-per salvargli la vita, senza previa autorizzazione, perché tale necessità si era manifestata nel corso dell'operazione.
E' vero quindi, che "non c'é modo di stabilire quale sia il principio <<migliore>> restando all'interno dell'etica" e che "per far questo dovremmo <<uscire>> dall'etica stessa"; ma far questo, non significa necessariamente dover "invocare un'intera concezione dell'uomo e del mondo, cioè un'intera cultura" .
Non si tratta di risalire ad una o un'altra "concezione" o visione della vita(weltanschauung), ma all'uomo stesso.
E per far questo, è sufficiente rifarsi all'osservazione razionale-non "spassionata" ma neanche di parte, metodica e però completa di ogni elemento-del soggetto cui l'etica fa riferimento:del "soggetto-uomo" o "persona umana", se con questo termine si intende l'essere umano considerato sotto il profilo ontologico, della sua concreta esistenza, e non solo fenomenologico, cioé delle determinazioni o manifestazioni particolari che variano da individuo a individuo(e nel singolo stesso a seconda dei vari stadi del suo sviluppo, dei fattori culturali, ambientali etc.).
Far questo, significa adottare un metodo razionale ma non razionalistico(l'idea o concetto al posto del reale, dell'uomo), in definitiva un metodo scientifico di impostare l'etica, la bioetica.
Solo così, tra l'altro, si può evitare di ricadere nel circolo chiuso della conflittualità negativa tra varie concezioni o culture, che è altra cosa dal positivo confronto e reciproco arricchimento tra le diverse componenti culturali e sociali compresenti in una società civile: nel che consiste l'autentico pluralismo, che è non tanto "tollerante" quanto rispettoso delle rispettive diversità.
Pluralismo di fatto possibile, proprio perché c'è un concreto fondamento su cui fondare sia il confronto costruttivo che la gerarchia dei valori o principi, la quale è alla base dei diritti e dei doveri relativi(per es. esiste anche un dovere di mantenersi sani, oltre che un diritto alle cure); questo reale fondamento, ripetiamo, è l'essere umano stesso vivente, la sua essenza o natura specifica concretamente esistente e manifesta a livello individuale.
E' importante tra l'altro notare che è proprio questo fondamento comune, che è un dato di fatto, a fare sì che la moralità sia lo stato naturale dell'uomo, la sua condizione normale di esistere, il fattore determinante la sua "umanità": e non invece l'immoralità.
Proprio per questo motivo siamo spontaneamente portati a definire come inumani determinati atti, connotati da una cosciente malizia o maleficenza, o anche dall'omissione di un possibile bene-ficenza in caso di evidente bisogno.
Per la stessa ragione, l'assoluta "tolleranza" individuale o sociale verso tali atti o comportamenti non è solo un attentato contro un codice morale o civile, ma essenzialmente contro l'essere umano stesso: non a caso si parla di "crimini contro l'umanità", di una intrinseca gravità tale che non cadono mai in prescrizione.
Per etica oggettiva intendiamo qui perciò, qualcosa di primigenio e di superiore ad una semplice etica "razionale": ricercata e costruita razionalmente e poi ordinata alla pratica(come potrebbe essere la "ragion pratica" kantiana o qualsiasi codice deontologico).
Di fatto può verificarsi una libera scelta che sia morale senza essere frutto di un esercizio della ragione, e viceversa una libera scelta razionale che non è affatto morale (neutra o immorale); ciò può accadere perché il nesso tra "scienza morale"(conquista di ragione e coscienza rette) e "scelta morale"(frutto di conoscenza e volontà libere) non è automatico.
La prima impegna solo l'intelligenza, la seconda coinvolge tutto l'uomo reale, con la sua volontà "attiva" e "passiva": vale a dire la cosciente "accettazione mentale" dell'idea "bella e buona"(il principio morale),vista dall'intelligenza e articolata tramite la ragione; e quella che si può chiamare la "persuasione" da cui nasce l'assenso, operazione tipicamente umana che tradizionalmente vien vista svolgersi nel "cuore" dell'uomo, che costituisce anzi, si potrebbe dire, il cuore dell'uomo.
Ciò è possibile in quanto(come dice Rosmini) nell'uomo vi sono due conoscenze: quella diretta dell'intelletto e quella riflessa della ragione, facoltà ambedue tipiche dell'intelligenza.
La conoscenza intellettuale diretta è quella dell'intelligenza che speculativamente, anche attraverso l'esercizio della ragione, conosce i beni parziali, soggettivi e oggettivi, nel loro ordine oggettivo.
Nel loro ordine oggettivo vuol dire nella loro gerarchia di valore, la quale dipende dalla quantità e qualità di bene o di essere di cui tutti gli enti sono portatori.
L'essere umano per esempio ha più "quantità di essere"(ovviamente in senso qualitativo, non materialistico) degli altri esseri materiali o viventi, perché partecipa di un essere qualitativamente diverso qual'é quello spirituale, illimitato, infinitamente superiore a quello solo materiale o biologico: ciò rende l'essere umano un bene indisponibile persino a sé stesso, ne fa un fine in sè stesso, un fine "infinito" rispetto ad altri fini o beni finiti.
Quella riflessa della ragione, la conoscenza razionale, astratta e calcolatrice per sua natura, può invece tendere a privilegiare degli ordini di beni soggettivi, relativi al singolo individuo: ai suoi istinti, alle abitudini, alle costruzioni mentali o convinzioni irrazionali, etc.
E' vero quindi che la decisione ultima spetta alla volontà, attributo squisitamente personale, la quale però è morale se risulta da una libera corrispondenza dell'azione non alla volontà stessa, singola o del legislatore(è il circolo vizioso dell'imperativo categorico di Kant), ma all'essere-bene o ordine oggettivo, visto e riconosciuto dall'intelletto.
La specificità della natura umana comprende insomma il composto bio-psichico(nei suoi dueelementi distinguibili ma non separabili), ma non si identifica del tutto con esso, con la propria uni-totalità: l'ordine specifico dell'esistenza umana include anche la libertà, patrimonio originario di ogni individuo che si esprime attraverso il libero rapporto o la relazione, che ciascuno instaura con l'Altro, con il dato da cui proviene, con gli altri, con sè stesso, con il proprio fine.
E' bene evidenziare che qui la parola "fine" viene intesa nel senso più pieno: non una meta fissata nel futuro o un progetto astratto su di sé o sul mondo, ma quella "intenzionalità" che è già presente sin dall'inizio, nei modi propri, in ogni essere, al punto che ne condiziona lo sviluppo come causa orientante.
Dal punto di vista biologico ciò è evidente(un embrione è finalizzato ad essere un uomo), mentre da altri punti di vista(genetico, psicologico, storico etc.) è meno noto oppure del tutto sconosciuto fino allo sbocco dei suoi esiti finali(la maturazione della sua personalità, i risultati della sua futura attività etc.).
Di certo, per quanto in modo confuso ogni uomo avverte questo suo "essere-in-relazione" con altro-da-sè, dentro di sé sente di "essere in-tensione-verso" qualcosa che è simile a sé, ma non è sè stesso(quella che per Platone è la dinamica di "eros").
Il riconoscere l'essenza dell'uomo anche come "soggetto in relazione", apre notevoli prospettive al punto di vista giuridico, di grande rilevanza per la bioetica.
Tale relazionalità è stata accertata come essenziale per l'essere umano anche dal punto di vista bio-psichico sin dal grembo materno, come confermano i più recenti dati della letteratura in materia di psicologia e psichiatria, infantile e prenatale.
Nè è scientifico ridurre tutto ciò al puro piano materiale: di scambi bio-psichici di natura chimica, per esempio, nel caso del rapporto tra madre e figlio. Anche in quel caso infatti, non solo la madre influisce sulla formazione psicologica e persino morfologica del figlio con gli stimoli(tra cui per es. le reazioni psicologiche di accoglienza piena o di rigetto), che vengono da lui assimilati secondo la legge di sviluppo sua propria; ma anche il figlio sulla psiche della madre, oltre che per via delle modifiche ormonali, anche per es. con la "mentalizzazione" del frutto del suo grembo, che ella comunque compie.
Un certo riduzionismo empirista è invece, a livello di riflessione superficiale, oggi molto diffuso: non ammettere, cioé che la ragione abbia un uso meta-fisico. Ciò significa "castrare" la stessa attività razionale, ridurla alla semplice funzione di rilevazione ed ordinazione sistematica solo dei dati sensibili.
Come in un circolo vizioso, tale impostazione riduce l'attenzione alla natura umana al solo dato empirico, riduce la stessa natura umana al solo piano empirico.
Ma la riflessione etica non può assolutamente accettare di intendere il concetto di natura umana solo come:"legalità formalmente riconosciuta dalla mente umana dei fenomeni spazio-temporali", e per due motivi.
In primo luogo, l'assolutizzare tale piano fisico-empirico esclude sia la libertà che quindi la moralità dell'azione.
In secondo luogo, l'intelletto o meglio il "cervello" umano sarebbe esso solo "creatore" della "scienza morale", esattamente come "produce" le scienze fisica, meccanica, medica etc., ma con una evidente contraddizione: mentre per le altre scienze l'etica scientifica ad esse propria esige nel comportamento soltanto la perfetta adesione ai canoni stabiliti; nel caso invece della scienza morale, l'adeguamento passivo alle regole, senza una mozione personale della volontà, risulta essere esattamente il contrario di una autentica scelta morale.
Inoltre, nel caso delle scienze empiriche la costruzione mentale avviene su di un dato esterno, rilevabile sperimentalmente; invece la "scienza morale" cerebralmente costruita(razionalistica) si baserebbe invece come unico dato sul costruente stesso, sarebbe quindi viziata in partenza, con l'handicap per dippiù della impossibilità di una verifica oggettiva.
Per gli stessi motivi, non si può fare appello solo a dati di tipo sociologico(rilevazioni statistiche) od a necessità politico-economiche, per stabilire, indipendentemente dalla verifica della effettiva correttezza morale delle "regole del gioco", un tipo di etica pubblica veramente "utile" ad una moderna società democratica.
Un'utopia questa, inficiata dallo stesso vizio d'origine: il ritenere possibile un'elaborazione etico-legislativa indipendente dal suo fondamentale referente, cioé l'essere umano, nella sua natura integrale; natura non solo data materialmente nel suo aspetto razionale o luogo culturale, ma capace innanzi tutto anche singolarmente di scelte veramente morali, oggettivamente tali, conseguenti ad una personale e complessa attività spirituale.
Invece per le etiche di tipo utilitaristico(il libertarismo o il neo-contrattualismo ufficialmente lanciato nel 1971 da John RAWLS, professore di filosofia alla Harvard University), il referente del discorso etico-sociale non è più la persona umana ma quella "struttura fondamentale" che "è un sistema pubblico di regole il quale definisce uno schema di attività che guida gli uomini ad agire insieme così da produrre una maggiore somma di benefici, e che assegna a ciascuno certe pretese riconosciute a una quota degli utili della cooperazione".
In questa maniera, invalidato l'essere umano come "monade" appartenente ad un tutto sociale, accantonata la natura umana come struttura portante dell'etica, la stessa etica viene fagocitata dalla prassi politica che sia "la migliore delle prassi possibili", il cui unico criterio normativo specifico è il seguente: "l'unico limite che la libertà individuale non deve oltrepassare è il non-danno agli altri in ciò che loro pertiene"; in qualsiasi altro caso, "deve essere permesso di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese".
E' quella che è stata chiamata "la priorità del Giusto sul Bene" . Non è difficile notare come in questo caso(corrispondente ad un'opinione tanto superficiale quanto diffusa), non vi sia più bisogno né dell'etica né della riflessione bio-etica, ma solo dll'ombrello di una normativa giuridica che tuteli ciascuno nei beni e negli ambiti di propria pertinenza.
La Bioetica invece, proprio col suo sorgere storicamente verificatosi già da decenni, sta a provare che il diritto-dovere comune su cui si basa l'ordinamento sociale(il "non-nuocere" ad altri, attenendosi al diritto positivo) è assolutamente insufficiente a dirimere le questioni morali e giuridiche, poste da conquiste scientifiche e prassi sperimentali e mediche, fino a ieri impensabili.
Bisogna anzitutto operare una distinzione tra esperienza morale ed ordine morale o etica.
Abbiamo parlato del fondamento meta-fisico dell'etica, cioé relativo al soggetto umano concreto, ma in quanto comune a tutti, al di là delle sue varie componenti individuali e di tipo "fenomenologico", separatamente considerate: biologica, psicologica, culturale, sociale, etc.
A tale base oggettiva, cioé reale ed universale, si può risalire attraverso una conoscenza oggettiva (che non vuol dire esaustiva), di tipo sia scientifico che insieme teoretico, del soggetto-uomo; e da qui risalire ad un ordine morale esprimibile in una gerarchia di valori: ad un'etica propositiva, oggettivamente proponibile a tutti come vera(il che non vuol dire, realisticamente, che sia attuabile con facilità da tutti).
Infatti, solo studiando a livello scientifico la vera natura di un essere nella sua completezza, si può stabilire cosa è bene per lui, come realizzazione massima della sua natura; quanto all'uomo, attraverso questo comune fondamento si può risalire anche alla nozione di bene comune, che (come sosteneva Jacques MARITAIN) è assai dippiù e di diverso che non "la somma degli interessi individuali".
Tale impostazione è perciò l'unica in grado di garantire, su una base reale e non volontaristica (cioé imposta, dall'interno o dall'esterno), che possano coincidere il bene ontologico(appartenente per sua natura a quell'essere, l'essere umano nel nostro caso) ed il bene morale (fissato in un ordine intellettivo stabilito), il bene individuale(felicità personale) ed il bene comune (benessere collettivo), in un quadro ordinato ed armonioso.
La situazione di conflitto sotto la quale siamo ormai abituati a considerare questi vari tipi di bene, è più apparente che strutturale, e deriva da vari fattori: sia dalla necessità(mentale e metodologica) di considerarli separatamente; sia dalla oggettiva difficoltà di adeguazione del caso particolare alla norma, che anche dalla fatica di ritrovare un giusto equilibrio tra essi.
Impegni considerevoli, che hanno occupato per secoli l'umanità, contribuendo alla evoluzione dei vari popoli in vere e proprie civiltà.
Chiarito il suo fondamento proprio, ontologico(il quale come"base" non può che avere una certa staticità), occorre sottolineare che la conoscenza morale è una struttura dinamica che si sviluppa concretamente, a contatto con l'esperienza. E' dall'esperienza che di fatto parte la riflessione morale, per il semplice fatto che la sfera dell'essere è più ampia e più ricca di quella del conoscere.
Da quando è sorta, l'etica ha avuto tradizionalmente il compito di rispondere alle seguenti domande:
A. cosa è bene e cosa è male, e perché?
B. quale è il massimo("sommo") bene per l'uomo(la vera felicità)?
C. come si deve vivere per migliorarsi e non degradarsi?
Rispondere a queste domande nei casi relativi all'ambito scientifico e clinico, attinenti all'intervento bio-medico in particolare sull'essere umano, è appunto il compito che rende preziosa ed utile la Bioetica.
Caratteristica dell'etica come abbiamo visto, è la conoscenza non puramente speculativa("conoscere per sapere"), ma pratica: conoscere per agire.
La conoscenza del mondo dell'etica, dell'atto giusto, libero e responsabile(buono), presuppone come abbiamo visto la conoscenza di chi compie l'azione, cioé dell'essere umano, del quale la libertà è un attributo specifico, proprio in quanto l'uomo non è soltanto un meccanismo biologico sui generis.
I meccanismi biologici non sono liberi, o hanno una libertà iniziale, superficiale, come quella degli animali, di carattere puramente passivo.
E' quella che da Piero MARTINETTI veniva definita "libertà da..." e non "libertà per...", cioé libertà d'indifferenza e non vera libertà, che è "consenso con la ragione" .
"Ogni volontà morale è quindi sempre la traduzione attiva di una visione che afferra le cose sotto un punto di vista universale, d'una intuizione concettuale di carattere universale" Intuizione concettuale che è altro dalla sua espressione astratta.
L'etica come scienza poi, si occupa dell'atto umano volontario, deciso in base all'esercizio della volontà e del libero arbitrio; essa non può omettere però la riflessione su quel primo "atto" che è l'esperienza morale stessa dell'uomo.
Esperienza originaria ed universale, perché ciascuno prima o poi si imbatte nell'idea morale, per quanto ancora non definita: riscontra cioé(non inventa) l'esistenza di un "qualcosa"(un valore, ancora non identificato), in base al quale "sente"(nel senso di: "è cosciente", anche a livello non-razionale) che qualcosa è bene o male.
L'uomo relaziona a sé tale esperienza, nel senso appunto che sente come" buono" o "cattivo ciò che, attraverso il suo atto cosciente, "lo fa essere" buono o cattivo come persona: ecco il nucleo essenziale dell'esperienza etica.
L'esperienza riguarda la persona morale in quanto agisce liberamente, riguarda cioé gli atti ed azioni liberi della persona, e si caratterizza quindi per alcuni fattori:
1. la distinzione già accennata, tra "atti dell'uomo"(fenomeni biologici o psichici che accadono dentro di me, comuni in qualche misura anche agli animali), ed "atti umani", che partono invece da una causalità libera, di cui l'uomo è responsabile, perchè passati attraverso la sua consapevolezza e responsabilità, impegnando cioé sia la sua personalità che il suo arbitrio libero;
2. l'esperienza del dovere, intesa come una sorta di obbligo interiore a compiere certe azioni ed evitarne altre(cfr.Apologia di Socrate);
3. l'energia effettiva esistente in ciascuno, tesa ad un fine: la realizzazione della propria felicità;
4. l'esperienza dei valori. Ognuno sperimenta infatti l'esistenza di:
4.1 vari tipi di bene
4.2 diverse modalità di conoscenza
4.3 diversi mezzi per raggiungere il fine;
5. la personale capacità di percezione del bene come valore, per cui esistono dei "valori-per-me".
Tali beni o valori percepiti intuitivamente in modo confuso, possiamo distinguerli con sistematicità in:
5.1. bene piacevole: di cui si gode, fine in cui si riposa;
5.2. bene utile: cioé strumentale, al fine di un altro bene. E' la ragione che coglie la proporzione di una determinata realtà in rapporto al fine, proporzionalità in cui è insita naturalmente una valenza morale;
5.3. bene intellettuale: valori culturali ed estetici, che per essere colti, in genere, richiedono una sensibilità affinata: essi non vincolano tuttavia particolarmente la libertà;
5.4. bene morale o spirituale: domanda un rispetto incondizionato, richiede una percezione del bene superiore alle precedenti, esige cioè che la risposta al valore corrisponda al valore oggettivo, alla verità.
Il bene morale interpella l'essere umano come tale, non solo come capace di ragione strumentale(calcolare per ottenere un risultato), ma di ragione morale, quella capacità cioé di intuire l'appello morale, il richiamo interiore che ti fa "essere-responsabile-verso...".
Non esiste etica né può esistere bioetica senza l'ammissione di un valore morale anche "fuori" o "altro", e della possibilità di una sua percezione, immediata o riflessa.
Tale esperienza dei valori è di un tipo non puramente empirico-sperimentale nè semplicemente razionale, ma con caratteri e dinamismi propri, che possono variare tra età e popoli diversi, ma hanno la costante di essere sempre presenti.
Un esempio tipico, fornito dai più recenti studi di antropologia culturale di tipo sociologico, è quello del "senso del pudore": cambiano le modalità e le espressioni, ma esso si riscontra sempre presente anche nei gruppi etnici più "primitivi" o estranei a qualsiasi influenza esterna.
Anche l'indio che circola con intorno ai fianchi solo una catenina, se ne viene privato reagisce vigorosamente, in quanto in essa concentra il senso di tutela del rispetto, dovuto alla propria personale individualità ed intimità.
A proposito del rapporto tra etica e costume, occorre tra parentesi far notare che ci sono due maniere di concepirlo.
Nelle società liberali(eredi delle rivoluzioni giacobina ed industriale, del '700 e dell '800), il rapporto tra costume ed etica è ribaltato rispetto al passato: vale a dire, è il costume che fonda l'etica, e non viceversa.
Alla base di questa concezione sta non soltanto il predominio storico di una classe o un potere politico(si pensi alla morale vittoriana, estesa al pari dell'Impero inglese); ma l'egemonica diffusione di una precisa concezione speculativa.
La lex viene intesa come produzione della volontà, prevalere della volontà sulla stessa ratio sulla scia del moralismo kantiano.
Per KANT, come è noto, non potendo la Ragione "pura" accedere al "noumeno"(alla "interna" verità della cosa conosciuta), e non potendo quindi neanche arrivare ad una verità morale-da qui comincia a svilupparsi il concetto di "etica-senza-verità")-allora il merito dell'azione non può risiedere che nell'adempimento del dovere, stabilito dall'imperativo categorico.
Non è un caso che nello stesso ambito tipicamente anglosassone sia sorto il cosiddetto positivismo giuridico, per il quale essenziale è il comando, non la razionalità: la legge è vista essenzialmente come atto d'imperio. E' giusto non solo ubbidire alla legge, ma a tutto ciò che la legge comanda, in quanto il giusto coincide col comando:iussum = iustum.
Tutto il diritto positivo da Cicerone in poi, si è invece fondato sul concetto di diritto naturale, come fondamento della legge, morale o statale. Vale a dire sulla capacità morale, una forza insita nell'essere umano stesso; che lo rende capace-e quindi in diritto-di dirigere sé stesso attraverso la sua libera volontà servita dall'intelligenza: intelligenza nel senso etimologico della parola, come capacità di intus-legere(leggere-dentro) le cose la loro verità relativa, il loro ordine, l'ordine stesso della propria natura e della natura fisica tutta.
La legge così intesa ha un doppio valore: è elaborata dall'uomo, e riflette l'ordine razionale della realtà.
Fondamento della legge, anche come corpus giuridico è dunque questa forza intellettiva e direttiva(come la chiama S.Tommaso d'Aquino:vis intellectiva et directiva), che va alla ricerca dell'ordine intellegibile insito nella realtà, umana e cosmica; questa forza interna all'uomo ma protesa fuori di lui, che costituisce il cuore dell'essere umano, che "è" l'uomo stesso.
Tornando all'analisi dell'esperienza morale: il primo passo, come già diceva Confucio, "è quello che rinvia a qualcos'altro da sé", all'Altro o all'Assoluto, distinto dall'assolutamente relativo che ognuno sperimenta di essere.
Relativo, dell'essere umano, s'intende in un duplice senso: di "limitato" e di "ente-in-relazione".
La limitazione sperimentata da ogni essere umano contiene una nota negativa, perché dice di una tal quale "incomunicabilità" totale e di una radicale insufficienza di ciascuno a realizzare da solo tutte le (proprie) possibilità; ma ha una connotazione anche positiva, in quanto gli specifici limiti di ognuno coincidono con i caratteri individuali che lo distinguono dagli altri, favorendo l'identità personale ed la capacità di uno specifico contributo operativo.
La relazione può invece essere vista sotto un triplice aspetto: con sè stesso, come capacità di autoriflessione(coscienza), con gli altri(capacità ed esigenza relazionale), e con l'Assoluto("capacità di infinito").
Tale "relazione" va considerata non come un' entità astratta, necessaria a livello puramente mentale, ma come l'entità reale che con il suo relazionarsi si riconosce, si qualifica nella sua dignità(di essere "relativamente assoluto") e contemporaneamente riconosce al suo relativo la qualifica che gli compete.
Senza questo tipo di riflessione "relazionale", per quale motivo la dignità di un altro, la sua libertà, la sua vita, dovrebbero valere quanto la mia, se non ci fosse un riferimento, una relazione comune a qualcosa di superiore ad ambedue?
Ci potrebbe essere solo un motivo di convenienza sociale, di civile convivenza, di rispetto legale: non ci sarebbe alcun motivo di tipo morale, non ci sarebbe etica.
Nella tradizione della morale filosofica, tre sono dunque gli elementi visti come fondamentali per l'esperienza morale:
1) il rapporto con l'assoluto(ma già Kant esclude dalla filosofia morale "pura" il rapporto con Dio);
2) il rapporto con sè stesso;
3) il rapporto con l'altro.
Nella riflessione morale contemporanea, i primi due aspetti sono andati scomparendo, con il prevalere delle etiche relativistiche.
Non potendo intellettualmente accedere a nessun tipo di verità morale, non si deve fare riferimento né render conto ad un Assoluto e neanche a sè stesso del proprio agire: che è morale solo in quanto è liberamente voluto e non danneggia gli altri.
Coerentemente a questo criterio, due persone consenzienti possono fare qualunque cosa: schiavismo, sadimo, masochismo, pederastia, eutanasia, poligamia etc.(come già illustrò il marchese De Sade).
Eppure la "morale pratica" di Kant, anch'essa "etica-senza-verità", voleva essere una esplicita reazione al libertinismo: derivazione, come corrente filosofica, dell'Illuminismo empirista.
La tendenza a fare riferimento alla "pura razionalità" o alla coscienza individuale come creatrice dei valori etici, esiste ab antiquo natura lmente, all'interno della storia della filosofia morale.
La differenza con la situazione attuale, rispetto al passato, è che questa tendenza si è trasferita da un'élite culturale alla massa, diventando il fenomeno sociale del secolarismo relativistico: secondo il quale la coscienza non è più il luogo dove si prende in tutta sincerità con sè stessi la decisione "giusta" e definitiva, ma il luogo dove ognuno si crea i suoi valori.
La società occidentale odierna ha assunto in gran parte la tesi (propria dell'etica marxista) dell'autocreazione continua, derivante dal concetto idealistico dell'eterno divenire: autocreazione di sè stesso da parte dell'uomo, che crea quindi e non scopre i propri valori in base ad un ordine "umano" insito nella propria natura(preesistente a sè come auto-riflessione cosciente).
Il materialismo dialettico intende invece la natura umana in senso materialistico appunto, esclusivamente biologico. E' costretto a negare quindi, che pre-esista alla riflessione razionale qualsiasi "ordine" specifico di dati che non sia materiale: un ordine di tipo morale "inscritto" nella natura umana, e quindi qualsiasi tipo di diritto naturale.
Gli stessi diritti umani finiscono così con l'essere non un diritto naturale, ma riconosciuto razionalmente da una società(anche quella umana, genericamente) ai suoi "cittadini".
Non si tratta più quindi della libertà "di fronte" al valore, ma della libertà di "porre", istituire il valore, e quindi poi anche di distruggerlo, trascurarlo etc.
In questo caso, l'esperienza morale non comprende più l'obbligo morale(un assoluto dovere) di fronte a qualcos'altro da sé, al proprio io come soggetto individuale. Ma al massimo, può esistere la coerenza della volontà di fronte a sé stessa, l'esigenza dei "doveri relativi" di fronte a situazioni storiche particolari e contingenti: secondo tempi e modi, comunque, che spetterebbe solo al soggetto stabilire, mantenere o mutare.
In questo senso si parla, quindi, di "storicità dei valori", tra i quali in ultima istanza l'economico è quello determinante, com'è noto, per una cultura di tipo marxista; valore predominante sia sulle varie culture, sia su quelle "sovrastrutture" culturali, delle quali anche l'etica farebbe parte.
In questo modo, è praticamente spazzata via un'etica-ed una bioetica- che sia una reale possibilità di richiamo ad una norma oggettivamente "vera", universalmente valida, uguale per tutti.
Il fatto che le "morali laiche" nutrano una fideistica sfiducia nella possibilità di rinvenire delle ragionevoli norme universalmente valide, in base alle quali fondare e giustificare delle regole, non vuol dire naturalmente, che esse non accolgano regole etiche che trascendono l'immediatezza empirica.
Ma, a differenza dalle etiche di tipo tradizionale, si propongono di trovarle quanto più limitate e provisorie possibile, per lasciare il più ampio margine alle scelte individuali, tanto più se determinate da fattori di ordine culturale o religioso(per es. la poligamia presso i musulmani, o i sacrifici cruenti di animali vivi presso gli ebrei).
Tali "etiche senza verità" si autoescludono da un arricchimento culturale notevole, dando per scontata l'ipotesi di non poter ritrovare alcun fondamento normativo, che non sia "dogmatico".
Come ogni ricercatore scientifico sa bene, infatti, si impara dippiù proprio dalle ipotesi che sembrano inizialmente più improbabili, perché è allora appunto che ci confrontiamo davvero con qualcosa di nuovo, di inaspettato.
Sono morali che possono anche essere animate da irriflessi sentimenti di altruismo, e oscillando tra l'etica del dovere e l'etica della felicità, animare la lotta dell'uomo "per il bene dell'umanità": ma non possono fondare alcuna norma o regola, perché sono esse stesse, per principio, sistematicamente senza fondamento.
E' tuttavia innegabile che possono certamente essere compresenti, nello stesso soggetto personale, il misconoscimento di una fondazione della morale capace di trascendere i singoli individui, insieme ad un comportamento buono, da tutti condivisibile.
Ciò prova appunto l'esistenza, in quello stesso che vorrebbe negarla, di una reale possibilità di scelte morali universali, che in qualche modo si rifanno ad una legge insita nell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, prima e al di là di ogni elaborazione riflessiva.
Si tratta di quell'esperienza morale personale, per cui ognuno relaziona a sè quanto "sente" come buono o cattivo, e vi aderisce con un suo atto cosciente: ciò lo fa essere o divenire "buono" o "cattivo" come persona, quando la reiterazione degli atti raggiunge un livello di comportamento acquisito e non più di scelte occasionali.
E' lecito chiedersi: in che senso l'essere umano "sente" qualcosa come buono o cattivo?
Si potrebbe rispondere, quando egli "percepisce"(una percezione di tipo intelletuale, anche se non a livello di ragionamento esplicito) che è stata esaltata o violata la dignità propria dell'essere: il rispetto cioé dovuto ad ogni cosa che è in quanto è, non solo in quanto esiste, ma per quello che è.
Tale rispetto dell'Essere in generale nella sua "ordinata bellezza", già Aristotele disse che provoca una gioia tipica.
Antonio Rosmini chiama la morale "il riconoscimento pratico dell'essere nel suo ordine"; l'atto è morale quando sceglie, al posto di ciò che rappresenta un bene soggettivo, ciò che ha una dignità oggettiva.
La soddisfazione morale allora non è solo quella del fare il proprio dovere( per meglio dire:"l'attuazione ordinata del proprio essere"), ma del "vedere"(ricordiamo che il greco theorìa etimologicamente vuol dire visione) che quest'ordine dell'essere viene rispettato.
Sia che si tratti del proprio essere che di quello delle altre persone, sia che si tratti dell'Essere Assoluto, Dio, che di quello della natura fisica(animale, vegetale, dell'ecosfera nl suo complesso), la gioia di vederne rispettato l'essere c'é sempre; ma è tanto maggiore, naturalmente, quanto più grande è la dignità dell'essere in questione, quanto più essere qualitativamente contiene, si potrebbe dire, l'oggetto della propria attenzione o "visione", quanto più esso mi sta "a cuore", visto appunto che si tratta di una contemplazione emotiva e non freddamente razionale.
Tale soddisfazione o gioia è morale? Certamente, quando però è proporzionata all'essere del suo oggetto: rallegrarsi della incolumità del cavallo disinteressandosi del fantino che si è rotto la schiena, per esempio, non si può dire una soddisfazione molto morale.
Per fare un esempio meno banale, tutti siamo per il pieno rispetto degli animali, e contro l'infliggere sofferenze e disagi inutili ad ogni essere vivente e senziente(tra cui anche i feti umani): ma se è effettivamente dimostrato che la sperimentazione seria e documentata su animali prima che sull'uomo, risparmia vite umane e conduce a progressi medico- scientifici di notevole ricaduta sociale, allora è difficile sostenerne l'assoluta illiceità.
Alcune correnti di "animalisti", contrari a qualsiasi tipo di sfruttamento degli animali(anche per nutrimento e vestiario), rigettano appunto questo tipo di "ordine dell'essere", secondo il quale l'uomo è un essere superiore agli animali. Che tale superiorità vada argomentata, oltre che riconosciuta a priori come è stato finora, può esser vero; ma addurre come argomento a favore della parità(a diritti umani corrispondono diritti animali) lo specismo, è un pregiudizio ancor più superficiale.
Per specismo s'intende la teoria, erede in modo più dogmatico che scientifico del darwinismo e del materialismo, per la quale quella umana non è una specie sui generis , quel che appunto si chiama il genere umano, ma è una specie più evoluta delle altre, cioé delle speci vegetale o animale.
Che sia difficile identificare quel quid che qualifica l'essere umano come qualitativamente, e non solo storicamente o psicologicamente diverso dalle altre specie viventi, è incontestabile.
Dopo l'oscuramento dell'influenza della civiltà cristiana-che dava, come elemento discriminante, la presenza di un'anima immortale in ogni individuo del genere umano, nelle società occidentali vari tentativi sono stati fatti di identificare il "tipicamente umano", l'elemento universale in cui identificare l'essenza dell'essere umano, capace di accomunare perciò individui e società.
Da alcuni è stato visto in senso biologico, nella non-riproducibilità dell'essere umano tramite l'accoppiamento con un altra specie animale; da altri in senso più culturale, nella capacità di linguaggio, di comunicazione simbolica o di ragionamento astratto; oppure nella elaborazione di conquiste scientifiche o monumenti culturali, nella capacità di "fare la storia" o di raggiungere un certo livello di civiltà, concetto che spazia dalla manualità alla creazione di codici morali(orali o scritti).
Ma ad un'analisi appena più approfondita, risulta evidente che tali elementi, presi sia singolarmente che nel loro complesso, sono insufficienti a qualificare l' umanità di quest'essere innegabilmente sui generis rispetto a tutto il resto della natura che è l'uomo; considerando oltretutto l'estrema varietà di individui e di società non solo succedutisi nei secoli, ma tuttora presenti sulla faccia della terra.
Cosa dunque si può riconoscere come elemento universale che "fa" l'essere umano? L'abbiamo già considerato: la sua capacità di essere morale, nella accezione più piena del termine, che ingloba le dimensioni del suo essere reale, dell'intelletto e della volontà.
Se è vero che qualsiasi argomento fondante, qualsiasi principio sul quale fondare delle argomentazioni razionali non può essere a sua volta dimostrato induttivamente(perchè, come ha dimostrato l'epistemologia contemporanea, ciò comporterebbe "un regresso all'infinito" ), è pur vero che secondo logica, già dai tempi di Platone ed Aristotele, la fondatezza di un principio può essere argomentata per esclusione, dimostrando l'infondatezza delle tesi contrarie, sia in sede teoretica(tramite un esame razionale che fronteggi le possibili critiche) che al vaglio dei riscontri di tipo scientifico.
E' questo il caso del principio secondo il quale l'essere umano si qualifica in base alla sua capacità di essere morale: e di capacità innata inerente alla sua natura si parla, anche quando tale "capacità morale" o moralità è rinnegata da un comportamento 'inumano" o semplicemente è potenziale: in potenza sì, ma non inesistente, anzi con un suo valore reale specifico, come lo è quello della libertà prima del suo effettivo esercizio.
Per questo la "specie umana" è l'unica per la quale si può parlare di "specie morale", che consiste nella scelta della volontà che si qualifica e qualifica l'agente in quell'atto.
Per quanto si voglia e si possa attribuire alle più svariate concause o influenze esterne l'azione di una persona, ognuno ha di sé un "sentimento fondamentale"(come lo chiama Rosmini) e sperimenta quindi la scelta della propria volontà, la quale si qualifica appunto per la sua incidenza in un atto determinato, che se reiterato influisce sull'essere stesso di un individuo: il fare volontariamente del male fa divenire un malvagio, il mentire abitualmente un bugiardo, il rubare un ladro, l'usare violenza un violento, il tradire un traditore etc., e viceversa: il fare del bene fa che un uomo possa dirsi buono, dire il vero che sia veritiero, non rubare che sia onesto, non tradire, non ricorrere all'uso della violenza, significa essere leale, pacifico, etc.
E' per questo motivo che ancora una volta si può ribadire che l'etica è per l'uomo, a suo favore, non un'imposizione esterna che si avvantaggia di un deteminato modo di agire umano; il fine dell'etica, come diceva già Aristotele è il bonum operantis, il bene dell'uomo, di colui che agisce, prima di tutto.
Da questo tipo di esperienza(elemento insostituibile che non sostituisce però la valutazione critica), vale a dire l'esperienza morale universale, tipica della natura umana sotto ogni latitudine ed in ogni tempo, è logico dedurre una riprova dell'esistenza reale di un quid interno alla "specie umana"; un che di specificamente umano che lo rende capace di mettersi istintivamente in relazione con un codice di valori oggettivi, universalmente noti a livello intuitivo, per quanto non ancora identificati ed espressi in forma astratta.
L'essere umano è l'unico cioé capace di conoscere norme oggettivamente valide cui attenersi, o quanto meno di conoscerne la necessità e l'esistenza oggettiva: una oggettività reale al punto che l'attenervisi o meno influisce direttamente sulla realtà, sull'essere reale di ogni singolo individuo umano.
Si tratta di una rilevazione possibile anche a livello sperimentale, quindi valida scientificamente, anche se non attiene all'aspetto esteriore, materiale o fisico di una persona o di un'azione.
L'occuparsi della "specie materiale" di un'azione compete al diritto, al diritto penale nel caso di una violazione dei codici giuridici; è tipico invece della scienza etica indicare la "specie morale" di un atto, vale a dire il suo senso o significato intenzionale, cosa la volontà ricerca compiendo quell'azione.
E' questa intenzione quella che qualifica veramente, dall'interno, l'agire umano.
L'uomo però, proprio perchè dotato di un innato "senso morale" che ha una sua oggettiva validità, come si è detto, non è affatto giustificato o "migliorato" nel compiere "con buona intenzione" azioni oggettivamente cattive(tradire, uccidere, rubare etc.); perché, come adulto ragionevole,ss ha la responsabilità di autoformarsi una coscienza retta, appoggiandosi alla sua natura, tramite l'esercizio dell'intelletto(che comprende l'uso dei sensi) e della volontà e della cultura, che è patrimonio comune dell'umanità.
Breve excursus di storia del pensiero morale
Sebbene ogni uomo sia dotato per sua natura di senso morale e capacità di apprendimento e valutazione critica, iniziando a prendere in considerazione un problema etico nell'ambito medico-scientifico, direttamente interessato alla vita, sarebbe assurdo o perlomeno a-scientifico non tenere conto di tutte le informazioni che la cultura(scientifica) fornisce in merito.
Nel caso di una questione di bio-etica, non basta comprendere ed assumere tutti i dati che le scienze bio-mediche sono in grado di fornire, ma è altrettanto chiaro che bisogna avere una minima conoscenza delle dottrine etiche, frutto delle più sagaci riflessioni sulla morale, di cui il pensiero umano è stato capace nel corso della sua storia.
Prescindere da questo sforzo di acquisizione culturale, che spesso comporta riflessioni ed opzioni personali, può significare due cose: superficialità o scientismo, che fa della scienza(intesa in senso neo-positivistico) "la sola formula interpretativa di tutto il reale" .
Per questo motivo, si è ritenuto utile fornire alcune linee di orientamento per un approccio alla storia dell'etica nel pensiero occidentale, considerato prevalentemente dal punto di vista degli eventuali risvolti bioetici.
In questo breve excursus della storia dell'etica come ordine morale, terremo presenti alcuni momenti fondamentali:
l'etica classica, la cui elaborazione fu portata a compimento da ARISTOTELE;
l'etica cristiana, elaborata sistematicamente da s.TOMMASO D'AQUINO; molte delle sue intuizioni sono state fatte proprie dall'etica personalista laica moderna, che ha spesso ispirato le Costituzioni dei Paesi occidentali;
l'etica moderna, consolidata dalla "rivoluzione copernicana" operata in morale da KANT;
l'etica contemporanea, che dall'idealismo di HEGEL in poi accentua l'omologazione tra "razionale" e "reale": la differenza tra spirito e materia sarebbe solo di grado e non di natura(materialismo e positivismo);
le correnti etiche odierne: psicologismo, sociologismo, positivismo (logico), pragmatismo(utilitarismo), contrattualismo, relativismo assoluto.
Proprio per valutare adeguatamente tali impostazioni etiche, è ovvio che sia indispensabile fare riferimento alle teorie morali precedenti, che esporremo in modo succinto ed anche incompleto, ma sufficiente ad avere un'idea precisa del movimento di idee che sottende all'etica ed alla bioetica come possibile scienza.
Età classica: l'etica aristotelica
L'etica di ARISTOTELE(384-322 a. Cr.) ha una valenza non solo storico speculativa, ma anche di attualità: alcuni autori anglosassoni odierni si rifanno ad essa per contrastare la tendenza an-etica della filosofia analitica e del positivismo(sostanzialmente senza-etica); anche a Padova esiste da decenni una scuola aristotelica italiana.
E' Aristotele a farsi interprete in etica dell'anima greca, la quale si era posta il problema della felicità(eudaimonìa), come armonia tra l'aspetto esteriore e quello interiore della vita; ma è lui il primo a concepire la morale come disciplina rigorosamente sistematica:ne fa infatti oggetto specifico di tre opere (Etica Nicomachea, Etica Eudemica, Grande Etica).
L'etica è per lui la scienza dell'azione e dei fini; del costume fa parte la politica, che è la più alta delle scienze pratiche.
In Aristotele sussiste la triade fondamentale dell'etica: bene-valore-fine.
Ma l'idea di Bene di tipo platonico, separata dalla realtà individuata e individuale, non è secondo lui effettivamente operabile dall'uomo: essa cade fuori perciò dal dominio della filosofia morale.
La sua definizione di bene parte di conseguenza non da un punto di vista oggettivo o ideale, ma di tipo psicologico-empirico:"Bene è ciò che tutte le cose desiderano"(Etica Nicomachea).
E' qui da sottolineare il lato positivo di questa visuale, un po' "antiplatonica": Aristotele riconosce il carattere originale e personale del sapere etico, da lui inteso non come mera applicazione logico-deduttiva di verità universali al caso singolo, ma come sintesi di una esigenza morale incondizionata con i dati mutevoli della situazione.
Sembra una sfumatura, ma è un dato fondamentale per la bioetica: si tratta della "terza via" tra deontologismo(di cui diremo trattando dell'etica Kantiana) e relativismo etico.
Si parte quindi, per lo Stagirita, dal prendere atto e valutare quali sono i beni(del corpo e dello spirito) più alti, per elaborare una morale normativa. Qual'é la felicità più alta dell'uomo? Egli risponde: la felicità più alta corrisponde alla parte più alta dell'uomo, all'intelletto, che è la partte più nobile, una scintilla del divino. La vita "contemplativa" è perciò il massimo della felicità; ma è riservata a pochi .
La felicità consiste quindi, per Aristotele, nel raggiungere una attualizzazione progressiva sempre maggiore dell'essere umano come natura razionale; questa perfezione dell'attuarsi o dell'atto è quello che chiama praxis(cosa diversa dal "fare", detto poiesis).
Le maggiori virtù sono quindi per Aristotele quelle dianoetiche (che si riferiscono alla perfezione dell'attività razionale o contemplazione), e ad esse sono subordinate anche le virtù propriamente etiche l'aspetto dell'obbligazione è meno sottolineato.
Di questa impostazione, si può vedere tuttora un retaggio popolare nell'indulgenza verso il "genio sregolato":l'eccellenza dei meriti scientifici o artistici autorizzerebbe a vivere "al di sopra" delle comuni regole(morali).
La norma dell'ordine morale sta dunque nella ragione; le virtù morali sono quelle che stanno nel giusto mezzo(come dicevano i latini: in medium est virtus), ma sono inferiori a quelle intellettuali e non includono quelle procedenti da un principio affettivo, come la speranza, l'amore verso l'altro, etc.
Dopo Aristotele, la felicità morale viene associata ad un più intimo rapporto con sé stesso, piuttosto che con gli altri o con lo Stato; sebbene la virtù somma resti la giustizia, che era già stata eletta da Platone come norma dell'azione morale, in quanto assicura l'ordine sociale nella legalità e nell'uguaglianza: tutti compiono la funzione che è loro propria, nel senso però che giustifica la schiavitù, l'inferiorità della donna, la prostituzione anche infantile, etc.
Il fatto che in una civiltà evoluta come quella greca antica, l'etica comunemente diffusa consentisse questi costumi, che ripugnano alla nostra concezione di moralità, mette in evidenza il fondamentale elemento negativo dell'etica classica: il naturalismo, che identifica la base dell'etica nella tendenza alla conservazione di sè, ad una "propria felicità" che non include una vera evoluzione morale, sia del singolo che della comunità.
Questa impostazione, assunta anche da etiche posteriori, richia evidentemente di non cogliere l'originalità dell'esperienza etica, che fa riferimento alla persona umana come portarice di qualcosa di universalmente valido, comune a tutti gli uomini ed essenzialmente costitutivo del loro essere in relazione; una esperienza morale autenticamente umana, per quanto finalizzata in fondo alla propria felicità, non può quindi prescindere dalla giustizia e dalla solidarietà in senso sociale, collettivo.
Altrettanto fondamentale è però il contributo positivo apportato dall'etica di Arisotele rispetto a quella precedente, cioé il suo anti-intellettualismo.
Ancora Platone metteva in bocca a Socrate l'affermazione, che tanto grande è l'efficacia del bene, che basta conoscerlo per praticarlo. Assolutizzare questa asserzione significa dire che il bene è la conoscenza(la "razionalità" o la "coscienza": Platone intendeva invece la "sapienza") mentre il male è l'ignoranza.
Aristotele afferma invece che la virtù non dipende in primo luogo dalla "conoscenza", ma dalla volontà o libero arbitrio che sceglie liberamente il bene conosciuto.
Età cristiana: l'etica tomistica
La morale espressa nel Vangelo da GESU' CRISTO costitusce un forte richiamo all'interiorità come rettitudine del cuore e dell'intenzione, ed alle potenzialità di perfezione della natura umana presenti allo stato primigenio("in principio", cioé prima della caduta originale).
Al cuore, cioé a tutte le intime potenze spirituali dell'uomo, Gesù si rivolge nel ribadire il comandamento antico:"Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze ed il prossimo tuo come te stesso" e nel dare il "Suo" comando:"Amatevi come Io vi ho amato".
Tale capacità di amore è in qualche modo insita nella natura umana, fatta ad immagine di Dio, ma è impossibile da realizzare in pienezza e verità alle forze umane da sole(come Gesù stesso disse:"Senza di Me non potete fare nulla").
La virtù(nel senso etimologico di potenza, capacità effettiva) di amare è quindi atto dell'uomo ma ancor più opera di Dio, del suo aiuto gratuito: sia come fondamento naturale(di Dio come Creatore) che soprannaturale(come Redentore e Spirito d'Amore).
E' per questo motivo che non è possibile una autentica morale-senza-Dio("se Dio non esiste tutto è lecito", scrisse Dostoievskji), cioé senza-fede-in Dio: anche se questo rapporto con Dio, a livello di conoscenza, può essere "reale"(immediato, per dir così) invece che "nozionale"(riflesso), secondo una distinzione che faceva il Card. J.H.NEWMAN(1801- 1890).
In concreto: Gesù Critso, Verbo di Dio fatto Uomo, è il Mezzo o Mediatore, la Via sicura al Padre, al Bene ed alla Felicità senza fine, a Dio: ecco la necessità della predicazione del Vangelo ad ogni creatura.
Nel Cristianesimo, due sono gli orientamenti speculativi principali: uno più mistico, sviluppato da s. BONAVENTURA DA BAGNOREGGIO (1221-1274), ed uno più teoretico, quello di s. TOMMASO D'AQUINO (1225-1274); essi assunsero anche alcuni elementi della morale greca classica, il primo in senso platonico, l'altro aristotelico.
S.AGOSTINO D'IPPONA (354-430) scrive: "Cerchiamo dunque attraverso la ragione in quale modo gliuomini debbano vivere.Tutti noi agiamo per essere felici, e non c'è nessuno che non consenta con questa affermazione...Esiste in noi un'energia effettiva tesa al fine, alla realizzazione di sè stessi verso la felicità"; scrive però pure, rivolgendosi a Dio:"Hai fatto questo cuore per Te e non ha requie finché non riposa in Te" .
KANT criticherà questa impostazione come "soggettivistica", incapace di fondare l'oggettività della norma morale, ed "ipotetica"("se" vuoi essere felice); egli non coglie la distinzione, presente in Agostino e nel Cristianesimo, tra egoismo ed amore di sè: il primo è una forza centripeta, l'altro si apre naturalmente sull'altro, è un'energia ex-statica.
S. BONAVENTURA sviluppa e sistematizza le intuizioni di S.Agostino, illustrando le nozioni di libero arbitrio, intenzione morale, fine ultimo, coscienza.
Il suo pensiero, attratto dal mistero della SS.Trinità di Dio, che si riflette nell'uomo fatto a Sua immagine, ha un andamento triadico ed un caldo afflato spirituale.
La"strada verso la felicità" coincide per lui con il cammino dell'anima verso Dio( Itinerarium mentis ad Deum è il titolo di un suo famoso opuscolo); esso avviene attraverso una conoscenza amorosa del Bene come Bello come Vero,come Vera Felicità: l'anima(la mens) più ama più conosce, più conosce e più ama(intelletto d'amore, lo chiamerà DANTE) .
Questa scelta amorosa dell'intelletto è fatta "di cuore", è opera della volontà ma attirata irresistibilmente, istintivamente "orientata" verso quel Bene oggettivo che soggettivamente è la Felicità.
Anche nell'etica aristotelica il Demiurgo muove in quanto è amato, ma non è un Dio né Creatore (scompare quindi l'obbligazione) nè personale, amante l'umanità.
La dottrina morale di S.TOMMASO considera attentamente quella aristotelica e se ne imbeve anche strutturalmente; ma, arricchita dalla meditazione stringente di misteri di fede come l'Incarnazione del Verbo, la SS. Trinità, la Paternità provvidente di Dio, l'esistenza di intelligenze immateriali buone e cattive etc. e pressata dall'esigenza di darne una elaborazione sistematica, giunge ad una costruzione profondamente originale, il cui valore è stato riconosciuto come atemporale sia all'interno della Chiesa cattolica che nell'ambito della storia del pensiero.
La struttura teoretica dell'etica tomistica si distingue per essere di tipo:
1. cosmico
2. aperto
3. realistico
4. normativo
1. Etica cosmica perché rinvia all'ordine cosmico, un ordo come complesso ordinato(armonico)di leggi in natura; nel quale si può riconoscere una identità o corrispondenza tra la causa di un fatto ed il fine a cui essa è ordinata(si parla di identità nel caso di entità materiali o animali, di corrispondenza per l'uomo, nel cui caso l'essere di natura non solo materiale ma spirituale fa entrare in gioco il fattore libertà).
2. Etica aperta alla vita concreta nelle sue varie dimensioni e fin nei particolari, ma aperta anche ad un al-di-là che va oltre la vita fisica e sociale, il mondo strettamente umano.
3. Etica realistica, dal punto di vista cognitivo(della realtà di una conoscenza effettiva), si riallaccia cioé alla concezione logica che l'intelligenza può conoscere la natura essenziale(specifica) delle cose; l'intelletto quindi conoscendola "recepisce"(non"crea&q uot;) l'intellegibilità della cosa(per es. la legge morale).
4. Etica normativa, perché riconosce l'importanza dell'obbligazione, sia da un punto di vista naturale(diritto naturale) che soprannaturale (Rivelazione).
Questa impostazione Tommaso d'Aquino la ricava da alcune cogenti premesse:
1.1. Dio, essendo l'unico Creatore, è anche l'unico legislatore del bene e del male(cose da non fare);
2.1. essendo la natura un complesso ordinato di entità o essenze intellegibili(se non fossero costituite secondo un ordine logico, non sarebbero affatto "comprensibilii")
3.1. risulta chiaro alla mente umana che in esse si manifesta una intenzionalità intelligente(del loro Creatore, ovviamente, non delle cose stesse), che funge all'uomo da guida in quanto la scopre e la recepisce;
4.1. da quest'idea "pura" di legge come espressione di un ordine naturale, deriva l'idea di obbligazione di una legge, prima che scritta, inscritta nella coscienza morale umana.
Da questo esame della realtà, consegue che:
1.2.il Decalogo biblico è la "codificazione" più compiuta della legge morale inscritta nel cuore dell'uomo;
2.2. l'intelligenza umana(un"cuore ragionevole") è la regola degli atti umani, ma si tratta naturalmente di una recta ratio, una ragione non soltanto capace di calcoli(egoistici), ma sostenuta da una sana coscienza e da una capacità intellettiva non offuscata.
3.2. la misura più prossima della morale è sì l'intelligenza ragionevole, la quale però è misurata a sua volta dalla lex naturalis, la quale"altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio.Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare.Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione";
4.2. l'obbligazione "sentita" o "rivelata" è dunque il risvolto soggettivo della legge oggettiva, la quale può essere:
4.2.1. legge eterna(regola universale che orienta ogni uomo verso il suo fine)
4.2.2. legge naturale(una certa partecipazione della legge eterna nella creatura intelligente)
4.2.3. legge positiva(scritta, in quanto l'uomo partecipa delle precedenti in maniera libera, non necessitata)
4.2.4. legge civile(determina, nella polis, quanto la legge naturale lascia impregiudicato).
Tipica però del Cristianesimo, culmine della lex divina, è la lex Christi, di quel Dio-Uomo cioé che dell'antica legge disse:"non sono venuto per abolire ma per completare".
Un illustre rappresentante della bioetica cattolica, Mons.Dionigi TETTAMANZI , in un recente convegno sulla bioetica ha proposto, come "minimo comun denominatore" di tutte le etiche, il principio riproposto da Gesù di Nazareth:"Ama il prossimo tuo come te stesso", vale a dire praticamente:"Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te".
Un rabbino invitato come relatore, rappresentante in Italia del Comitato Nazionale di Bioetica di Israele, si è rallegrato di questa proposta, sottolineando che la suddetta espressione va per primo attribuita ad un rabbino vissuto quarant'anni prima di Gesù Cristo.
In effetti, quello che Gesù ci ha messo di "Suo", con la sua parola e la sua testimonianza di morte cruenta, è stato il comando:"Ama, amatevi", cioé, in positivo: fa' agli altri quello che vorresti fosse fatto a te e sarà come se l'avessi fatto a Me stesso, egli dice; e persino:"Amatevi come Io vi ho amato", cioé fino ad abbassare me stesso, il Verbo di Dio, facendomi carne, e come uomo facendomi servo, facendomi "cosa"("questo è il mio Corpo"), soffrendo e dando la vita, per puro amore.
Tutto questo naturalmente non è possibile all'uomo senza la grazia di Dio, quell'aiuto particolare che il Salvatore, il Verbo di Dio in persona, è venuto a portare ed elargisce gratuitamente attraverso il Suo Corpo mistico, la Sua Chiesa.
Ciò motiva tutta la comprensione e l'apertura della Chiesa cattolica verso l'umanità indebolita dal peccato d'origine e non ancora raggiunta, illuminata e sostenuta da questa grazia di salvezza: ancora incapace quindi di seguire fino in fondo il comando proprio di Gesù, di amare, fino a dare la propria vita.
Ma la stessa intima specificità del comando evangelico, fa' sì che esista una "genetica" conflittualità, una reciproca "intolleranza" fra tutte le etiche egoistiche, eudemonistiche, fisiciste(materialistiche), e quella cristiana cattolica.
Come il Magistero cattolico spesso ribadisce, non si tratta di irrigidirsi su determinate posizioni etiche, ma di non tradire il Maestro nell'essenzialità del Suo comando, che è quello dell'amore verso l'Altro-Dio, il prossimo-come regola, come misura dell'agire morale.
Ciò mette indubbiamente in grave imbarazzo l'etica come scienza dell'agire individuale, perché costringe l'uomo a confrontarsi con l'Altro-da-sè, che però in qualche modo ha in sè, non è a lui del tutto estraneo: se così non fosse, questa idea di Dio, questo bisogno di amare l'altro, l'essere umano non avendoli in sé, non sarebbe neanche riuscito ad "inventarseli:fu VOLTAIRE(1694-1778) a dire:"Dio se non ci fosse bisognerebbe inventarlo".
L'etica di tipo religioso risulta "imbarazzante"per due motivi:
non solo perché mette l'essere umano di fronte alla questione dell'esistenza dell'Essere divino(per l'etica ebraico-cristiana e musulmana esiste un fine assoluto dell'agire umano, un fine che non è solo meta-fisico ma anche meta-umano: proprio in quanto esiste Dio, lo scopo ultimo dell'azione non può essere solo l'eudaimonìa, la "vita beata" in terra, ma è la volontà adorabile di Dio, cioé la vita beata senza fine);
ma anche perché costringe in qualche modo l'uomo ad "uscire da sè", a compiere la più sublime delle azioni umane: ad amare, amare l'Altro da sè, amare Dio ed il prossimo e, per l'etica cattolica, ad "amare da Dio", come Dio ci ha amato ed ama(cosa possibile solo in Cristo, l'Uomo-Dio, venuto a fare" una cosa con Lui" i suoi).
L'etica cattolica supera ogni tipo di precettisttica morale: non è adempiendo a qualche precetto, "facendo" qualche azione particolarmente "morale" che si è moralmente a posto: ma è amando, volendo il bene alle persone e compiendolo, che l'uomo si "divinizza", si rende simile al Bene, si fa "buono".
Concetto fondamentale della morale cattolica è che "il bene perfeziona l'ente", l'atto buono perfeziona l'uomo(e viceversa):Charitas infunde bonitatem, l'amore autentico infonde la bontà, in un duplice senso :
l'amare perfeziona l'uomo, infonde in lui la bontà, la vera moralità(è la ragione per cui Gesù non lasciò una serie di precetti morali ma li compendiò tutti nel "Suo" comandamento:"che vi amiate a vicenda come Io vi ho amati");
il cristiano non attende di essere moralmente perfetto per amare, né aspetta che sia amabile l'oggetto del suo amore: ma amando si perfeziona e perfeziona l'oggetto del suo amore, rende più amabile, infonde, col bene che vuole, il bene che non c'è(Gesù è l'unico a comandare come precetto morale:"ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti odiano"; e s.Paolo vede la somiglianza di questo amore con quello del matrimonio, di cui dice che è misterium magnum, "grande sacramento, e lo dico in relazione a Cristo e alla Chiesa").
E' questo il perfezionismo etico, questo essere miseri-cor-diosi, (letteralmente dare-il-cuore ai più miserabili), che coincide con quell'essere "perfetti come il Padre vostro che sta nei cieli", il quale "fa piovere e fa splendere il sole sopra i giusti e sopra gli ingiusti", come dice Gesù.
Tale perfezionismo etico è altra cosa dal perfettismo(mirare a raggiungere la perfezione, anche "morale", in sé o per sè, per la propria "realizzazione" o "qualità di vita"); ed è il contrario del normativismo etico, del "tu devi".
Anzi una morale esclusivamente normativa o deontologica, del tipo Kantiano, è piuttosto priva di questo elemento, cioé della valenza del soggettivo perfezionamento che consegue dal "volere il bene":punto fondamentale dell'esperienza umana e dell'etica cristiana.
Così la norma morale diventa qualcosa di estraneo all'uomo, e se questa estraneità comporta una oggettiva difficoltà ad adempierla, aumenta in proporzione anche il merito del "compimento del dovere".
Nell'etica di Gesù invece l'adempiere al comando dell'amore vicendevole è un " peso leggero" ed un "giogo soave"; non per questo naturalmente viene del tutto spontaneo, facile e naturale, come "salutare quelli che ci salutano" o "amare quelli che ci amano": ma di questo, dice Gesù, "che merito ne avete? Non fanno così anche i pagani?"
Il passaggio dall'etica classica a quella moderna avviene dunque "attraverso" quella cristiana, e ciò si può affermare sia in senso storico che teoretico.
L'inizio dell'etica in senso moderno è caratterizzato dal fatto che essa assume come suo modello quello sperimentale delle scienza: vale a dire il modello matematico applicato al fenomeno verificato, a "ciò che fisicamente appare".
La parabola dell'etica moderna si concluderà col fallimento della stessa morale, per il fatto che essa pretende proprio di "attraversare" quella cristiana: desidera assumere il costume cristiano(perché lo riconosce un frutto di alta civiltà, civicamente adeguato alle sigenze soiali etc.), senza però voler assumere il cuore dell'insegnamento di Cristo, vale a dire quel protendersi del cuore dell'uomo verso l'Altro da sè, al di là delle sue stesse possibilità umane, di quell'umano "troppo umano" secondo l'espressione di F. NIETZSCHE(1844-1900).
Anche nelle società liberali-eredi delle rivoluzioni di '7OO ed '8OO- si capovolge il rapporto tra costume ed etica, come se l'uno fondasse l'altra.
Si perde il concetto di etica come morale, cioé come scienza che concerne l'azione umana nel principio che la sostiene: un principio oggettivo, la vera natura umana, ed insieme soggettivo, la vera intenzione.
L'etica diventa in questo modo studio del comportamento.
L'essenza dell'uomo si qualifica per la sua relazione con l'Altro da sè, l'Essere(assoluto) che egli non è: mentre animali e cose non hanno insita questa costante tensione verso l'altro- da-sè; così la morale si identifica in questa dialettica continua tra ciò che è e ciò che non è ed è bene che sia, cioé che deve essere.
Se invece all'uomo basta fare determinate cose, adempiere certi precisi doveri, per realizzare la sua essenza, la sua compiutezza...allora si decapita l'etica, non abbiamo più la tensione morale, sostituita dal normativismo, dal legalismo, dal moralismo, dal conformismo("cristiano", "borghese", "laico" etc.).
Ecco in qual senso avviene il passaggio "attraverso" la morale cristiana ma senza Cristo-Dio, senza la Verità cristiana cattolica, passaggio teoretico ma storicamente avvenuto, dall'etica pagana classica a quella moderna e contemporanea.
Essa si configura ai suoi inizi, come s'è detto, per l'ambizione di assumere come scienza morale il modello sperimentale delle scienze: di applicare cioè il modello matematico a ciò che appare, alla natura, di cui si ambisce diventare "signori e possessori", come afferma Cartesio nel suo Discorso sul metodo.
E' questa forse la più profonda radice dei "deliri di onnipotenza" delle scienza: sapere è uguale a potere, "saper fare" qualcosa equivale senz'altro a "poterla" fare.
Da Cartesio in poi, si assiste al tentativo di applicare il modello matematico a tutte le scienze umane, a tutto il "vero sapere". Si viene così ad escludere automaticamente ogni dimensione che superi il conosciuto come "verificato sperimentalmente"; ciò in morale viene a coincidere con il progetto su cui si basa l'età moderna: vivere i valori cristiani al di fuori dell'esperienza o visione di fede.
Sotto la pressione della triste esperienza delle guerre di religione he dilaniavano l'Europa, si comincia ad andare alla ricerca di una morale a-confessionale, "etsi Deus non daretur", come se Dio non esistesse.
Quest'espressione, che gode oggi di tanta fortuna presso la bioetica "laica" più radicale, appartiene a H. GROZIO(Huig de GROOT, 1583-1645), uno dei primissimi esponenti del giusnaturalismo laicista; egli personalmente credeva in Dio creatore della natura umana, e risalendo ad una ragionevole morale del tutto naturale, ma "senza Dio", credeva di fare gli interessi della morale di origine divina.
Anche qui, viene assunto un fatto sperimentato, la divisione degli animi in campo religioso, come dimostrazione di un'affermazione indimostrata: "la religione divide gli uomini".
Da una riflessione più approfondita, confermata anche dall'esperienza storica, si desume invece che la dimensione spirituale inevitabilmente unisce, in quanto tensione di desiderio verso un Essere divino, verso la verità ed il bene; sebbene sia innegabile che gli esseri umani, capaci di conflittualità laceranti, sono spesso spiritualmente divisi, a causa dell'umana fallacia e del fanatismo, nelle rispettive posizioni di fede.
Cominciando col fondare la morale su di una "natura ragionevole" ma "senza Dio", si finisce poi col voler riportare anche la religione "entro i limiti della ragione", come disse per primo KANT, e storicamente si è puntualmente verificato.
La ragione, afferma Pierre BAYLE(1647-1706), deve fondare la morale solo sulla legge morale naturale, ma: quale natura? Quella solo fisica, sperimentabile, umana in quanto coincidente con il complesso della natura fisica sperimentale.
Sulla scia del progresso delle scienze sperimentali, "la" scienza comincia a qualificarsi come conoscenza "disinteressata", nel senso di non-orientata a dimostrazioni preconcette o al servizio del potere, ma bensì utilitaristica, come conoscenza di un-bene-per-me.
Cade in declino-già dal Rinascimento, con l'ascesa dell'homo faber, il paradigma antropologico di una nobiltà dell'uomo riconosciuta sul piano della relazione intellettuale ed amativa con l'Altro da sé, cioè sul piano contemplativo-amativo o del proprio arricchimento personale o perfezionamento.
Tale umana nobiltà trapassa sul piano tecnico-operativo: l'uomo vale non per ciò che è, con il complesso delle sue relazioni conoscitive e personali, ma per ciò che fa, per ciò che sa e quindi che può fare ed avere.
Non è più l'idea del bene attorno a cui ruota l'agire morale, ma l'azione è morale in quanto fa "cose buone".
Anche per questo motivo il tentativo di fondare l'etica etsi Deus non daretur va respinto, nella misura in cui nega ipso facto l'esistenza di un problema fondamentale per l'etica: c'è o non c'è un Assoluto? Qualsiasi tipo di etica razionale che scavalca questo interrogativo non ha , come etica, alcun fondamento, perché rifiuta la distinzione tra essere e dover essere.
Se GALILEO ancora affermava:"non conviene al fisico tentar le essenze", affermando in modo implicito che c'è un'essenza, un essere profondo della natura delle cose umane, una loro "verità" che non è dato alle scienze fisiche di tentar di conoscere... col meccanicismo deterministico, per esempio di LAPLACE(1749-1827), si assiste invece al tentativo di ridurre la spiegazione del mondo allo spostamento dei corpi nello spazio, attraverso le leggi della dinamica e della fisica, in particolare attraverso le tre grandezze spazio-tempo-massa. Lo stesso KANT è convinto che la fisica newtoniana sia il paradigma di ogni conoscenza scientifica.
Lo stesso criterio viene applicato all'uomo, che comincia ad essere preso in considerazione dalla scienza medica solamente come "meccanismo organico", organismo vivente che come un meccanismo fisico può essere studiato e curato nelle sue diverse parti, senza tener conto nel complesso della sua natura, non solo materiale(sulla quale è possibile compiere degli esperimenti verificabili), ma anche della sua essenza "spirituale".
Questa impostazione meccanico-fisicista ha dominato per secoli la storia della medicina, favorendo anche in qualche modo-con questo "sgangiamento" della "fisica" dalla "filosofia"- i notevoli progressi a tutti noti.
Solo recentemente, l'accelerazione dei processi di conoscenza e di assistenza medica generalizzata(oltre al calo di "qualità umana" nelle relazioni interpersonali), ha messo in rilievo i guasti che dal punto di vista non solo bioetico ma medico-scientifico, può comportare un'eccessiva suddivisione delle specializzazioni, con la tendenza a studiare e curare "il male" più che non "il malato" specifico.
Ciò accade quando la natura viene vista sì come un complesso di leggi, ma di leggi puramente fisiche: nel concetto di natura inteso in senso solo materiale si perde inevitabilmente il concetto di natura umana.
Nella direzione contraria si muove invece la medicina olistica, che cerca di acquisire, anche attraverso scambi con l'antica arte medica orientale, una visione complessiva più "umana" di tutto il cosmo.
Ciò non significa però, come appare scontato per le scienze dell'età moderna, che la differenza tra spirito e materia non è più di natura ma di grado.
E' con Cartesio che si fa strada l'idea che esista un paradigma unico, per spiegare la natura sia fisica che umana, pervenendo però ad un'aporia inevitabile, il dualismo tra rex cogitans e rex extensa: come entrano in comunicazione infatti la "cosa immateriale o spirituale" come il pensiero, e la "cosa fisico-biologica", come il cervello?
E' quello che oggi vien detto il mind-body problem, il problema del rapporto della materia bio-neurologica con le attività mentali superiori; questione che sarà sempre irrisolvibile in questo modo, impostandola dualisticamente appunto, non accettando cioé che l'essere umano è di fatto l'unico, in natura, a godere di queste proprietà in un tutt'uno inscindibile.
Si possono ben studiare i meccanismi fisiologici, le reazioni a livello cerebrale, psicologico, mentale etc.; ma pretendere di trovare "scientificamente" il punto di separazione o di sutura tra gli uni e gli altri, significa dare per scontato un dualismo che non esiste finché esiste la persona umana e non il suo cadavere: si rischia insomma di fare come quel medico che, per cercare il principio vitale in un individuo, lo sezionò accuratamente in ogni fibra, fino a vederselo morto davanti senza essere ovviamente riuscito a scoprire nulla(l'esempio è dato, in un altro contesto, da s.Agostino).
Lasciata questa questione irrisolta(dualismo tra natura fisica e spirituale), la morale cartesiana non può che essere provvisoria, come lui la chiama espressamente.
Una tale morale oggi sembra essere caldeggiata da più parti in ambito bioetico: si trovino delle "soluzioni interlocutorie", si dice, lasciando eternamente aperta la discussione sui "massimi problemi", riguardo i quali ognuno è inevitabilmente influenzato dalla sua impostazione etica di partenza.
A livello legislativo, ciò risulterebbe poi doppiamente utile: in quanto, più è vaga e indefinita la norma nel suo complesso e nel suo fondamento, più ampia è la copertura offerta alle eccezioni particolari, che facilmente si presentano nelle società pluraliste e multietniche come quelle odierne, occidentali in particolare.
Da questa strettoia di una morale indefinita o provvisoria, tentò di uscire a suo tempo B. SPINOZA(1632-1677), il quale volle addirittura dare un' Ethica more geometrico dimostrata, una scienza morale elaborata con una precisione di metodo di tipo geometrico.
La stessa riflessione di KANT prende le mosse, come tutti sanno, dall'accoglienza critica dell'empirismo: vale a dire delle dottrine di LOCKE, per il quale non c'è modo-date le modalità di conoscenza empirica-di valutare razionalmente i vari bisogni e quindi i doveri; e di HUME, secondo il quale il bene è misurato dal piacere o dalla sofferenza che comporta: "bene" è uguale sostanzialmente al soggettivo benessere, mentre non c'è più distinzione tra "male" e sofferenza psico-fisica.
Si assiste qui ad una sostanziale riproposizione dell'equazione: dolore=male; la stessa secondo la quale, anticamente, esso era considerato un castigo divino al male compiuto.
Tale impostazione empiristico-psicologista, è ancora oggi molto in auge tra tutti coloro che parlano di "qualità della vita" come diritto assoluto di tutti e soli i "senzienti"; come diritto primario a "non soffrire", per esempio, non solo per gli uomini(per i quali viene meno, nel caso di previste sofferenze, il diritto a nascere), ma "diritto" anche per gli animali.
KANT critica con vigore questo concetto di bene abbassato a quello di benessere, cioè a quanto "sento" nella sfera empirica.
Ma la sua impostazione ideologica è ancora profondamente empirica, sebbene rovesciata: per non ammettere che l'unica conoscenza "vera", possibile, sia quella immediata, empirica, nel suo esame o Critica della Ragion Pura nega anche all'uomo la intuizione intellettuale dell'intellegibile, come via d'accesso alla "realtà"("verità propria") delle cose.
Per non arrendersi poi allo stesso esito, lo scetticismo su qualsiasi possibilità di conoscenza anche etica, è costretto allora a chiedersi: se il bene non può essere realmente conosciuto, su cosa è possibile fondare la morale?
Proprio in reazione speculare a David Hume, egli esclude l'intero mondo dell'esperienza umana dalla "scienza del noumeno", come pure perciò dalla scienza morale.
Si priva così del prezioso contributo costituito dall'esperienza, dall'osservazione delle inclinazioni e delle tendenze comuni a tutti gli uomini, sia nel campo della conoscenza intellettuale che nell'ambito morale.
Kant esclude come "soggettivistica" la concezione cristiana classica della morale, cioé quella tensione al bene oggettivo che è insieme ricerca della vera felicità, concezione la quale sottintende che all'uomo il bene reale è conoscibile e la sua pienezza raggiungibile.
Bene conoscibile ed attuabile in quanto dipende da un "fondatore" che è Dio, non solo in quanto esistente, in quanto Bene assoluto Egli stesso, creatore di tutto e legislatore, che ha dato una Rivelazione delle sue leggi e di Sè nell'uomo, fatto a Sua immagine e somiglianza, nella Sacra Scrittura e nell'Incarnazione del Suo stesso Verbo, Gesù Cristo.
Escludendo pure la posizione etica empirica e scientista, non resta che riportare entro il registro della "pura ragione" umana tutti gli elementi dell'etica cristiana(che per lui è quella luterana-pietistica).
Avviene così quella che è stata chiamata la "rivoluzione copernicana" in filosofia morale: non è più il pensiero(la coscienza sensibile e riflessiva) dell'uomo che si regola in base alla realtà(o l'essere, che si rivela nella natura, sua e delle cose); ma è il pensiero(la rilessione raziocinante) che dà la propria forma alla realtà, stabilisce le regole dell'essere delle cose.
Come COPERNICO(1473-1543) scoperse che non era il sole a girare intorno alla terra, così da Kant in poi non è più la realtà o l'idea del Bene, riconosciuta dall'intelligenza, il sole attorno a cui ruota l'agire morale, ma l'idea del dovere, determinata "a priori" dalla ragione: è l'Uomo stesso, in definitiva, che con la sua ragione determina il concetto di bene oggettivo e le relative regole.
Si perde l'etica come rapporto intenzionale del pensiero con l'essere, del soggetto pensante col suo oggetto, vale a dire: riconoscere ciò che è bene e tendervi , è ciò che fonda il bene di un'azione.
Si rafforza al suo posto una
"versione ridotta"
dell'in-tenzionalità, tutta soggettiva,
e cioè "l'etica
dell'intenzione": la volontà
"santa"-dice Kant-è
quella che si muove "in
vista" del rispetto della legge.
Il valore in assoluto
"più santo" è quello della
"purezza
dell'intenzione": "non c'è niente di più
alto al
mondo di una volontà assolutamente buona", egli
afferma,
così come LUTERO(1483-1546) aveva detto:"niente, di
più
alto della fede".
Ma qual'è la volontà santa, assolutamente buona? Quella che fa il dovere per il dovere(più che fare il bene "secondo il proprio dovere"), cioè che agisce "per dovere", per il puro rispetto della "forma universale" della legge.
L'etica di KANT esprime sì una istanza di universalità ed una valenza di "purificazione", che corrispondono a quella richiesta di interiorità sulla quale si basa l'etica cristiana, sia come "intenzione pura" sogggettiva che oggettiva "purezza di cuore".
Ma questa valenza rimane inscritta per Kant in qualcosa che sta fuori l'essere umano stesso, come legge, formalizzata dalla ragione.
Dei tre rapporti tipici dell'etica:
I.con l'Assoluto (Dio)
II.con se stesso (Natura)
III.con l'altro(Legge), Kant esclude i primi due, vale a dire:
I. accentua il momento del disinteresse, ma taglia fuori la finalità del bene più alto, amato "per se stesso", non "per noi": in questo, soggiace anche lui all'impostazione pratica(più che "estetica") di una conoscenza di tipo scientifico, che vale in quanto "è utile";
II. nel rapporto col sè, egli trascura la differenza tra piacere, che è una nozione empirica, e felicità, che è una nozione ontologica, che riguarda l'essere, che effettivamente corrisponde cioè alla mia natura ontologica.
Non esiste per KANT un ruolo dell'amore in senso morale né come "eros" né come "agape":l'amore è comunque viziato, per lui, dal dato empirico, come lo sarà, per FREUD(1856-1939) dall'influenza sessuale.
La ricerca naturale del "bene" è dunque lecita solo se comandata da un ragionevole senso del dovere.
Il senso del dovere è anche l'unico "senso pratico", tutti gli altri sono "sentimenti patologici":non c'è alcun "buon senso" come "senso comune" o comune "sentire" qualcosa come bene.
Anche qui, è riproposto in senso rovesciato lo psicologismo di Hume: tutto ciò che "sento" a livello psicologico-empirico come bene, come "piacevole", è bene, diceva Hume: è male, dice Kant.
Da qui il moralismo più bieco: il "sentimento piacevole" che non sia "senso del dovere", è sempre male.
Per lo stesso Cristianesimo invece, la ricerca del bene-in-sè (oggettivo) o del fine ultimo(Dio), non esclude il bene-per-me, sia temporaneo o fisico(piacere) che come fine ultimo soggettivo (felicità); beni che anzi possono venire a coincidere, specialmente da quando Dio stesso si è "insoggettivato" in una realtà umana in senso fisico, nell persona di Gesù Cristo: tutti questi beni insieme costituiscono la beatitudine vera, senza fine.
Già Aristotele affermava che "la gioia segue ogni atto perfetto":per Kant invece, l'unica possibile è "la soddisfazione del dovere compiuto".
Notando però che l'unione di virtù e felicità spesso non si verifica in questa vita, e riconoscendo che il contrario sarebbe immorale perché ingiusto, a Kant non resta che postulare l'esistenza di Dio: l'unico che può "garantire", anche in un altro mondo, la giusta ricompensa al bene o dovere compiuto.
DIO non è più per l'etica anche "religiosa" dell'età moderna il Legislatore, in quanto assolutamente esistente, Bene assoluto Egli stesso, Sapienza infinita e Potenza creatrice, per amore, di una realtà "buona" per sua natura originaria. Dio è un postulato della ragione umana.
E' l'uomo invece che fonda la legge, o meglio, è la ragione pratica auto-legislatrice.
Dio si riduce ad essere il "garante estrinseco" della necessaria unione di virtù-felicità: colui che darà "a ciascuno il suo", per chi ci crede, e seguendo il ragionamento morale di Kant, occorre credervi, perché l'imperatività della morale non sia una presa in giro!
La ragione pura infatti, la filosofia teoretica, finisce per approdare per Kant a delle antinomie, cioè a idee sulle quali essa "non può decidere", che sono: Dio - l'anima - la libertà
Esse non sono "conoscenze"(di tipo puramente teoretico o sperimentale), ma "postulati" della ragion pratica. Perchè postulati?
Perché sono conclusioni che bisogna postulare, come abbiamo visto, a risultato di una stringete ricerca teoretica, a partire dalla "critic della ragione".
Se alla morale non si può approdare tramite i mezzi dell'intelligenza umana, sostiene Kant, tanto più bisogna credere alla morale, tanto più s'impone categoricamente l'imperativo: tu devi.
Dio stesso non è il principio della morale, ma il risultato di una fede morale: alla virtù deve corrispondere la felicità.
Quel che è importanesottolineare, è che per la mentalità etica moderna, da Kant in poi, è l'uomo dunque che perviene all'idea di un Dio "giusto", è lui che "crea" Dio nella sua mente come "garante" dell'istanza morale: non è Dio che pone l'uomo come un dato, una realtà creata ma viva, dinamica, libera e responsabile, con determinate inclinazioni naturali dalle quali l'essere umano può sceverare l'essenza della sua natura e riconoscere quindi quelle leggi dell'agire morale, che possono "garantirgli" di essere felice.
Ricordiamo che per TOMMASO D'AQUINO tali inclinazioni umane, che danno vita alle leggi naturali, sono:
1. perseverare nel proprio essere(quel che in campo fisico è "l'istinto di conservazione");
2. tendere verso l'altro, all'unione e alla generazione di "altro da sé"("l'istinto di riproduzione" in campo fisico, artistico etc.);
3. conoscere la verità e vivere in una comunità sociale.
Se per l'Aquinate da queste inclinazioni derivano le leggi naturali, Kant invece attribuisce tali tendenze al momento "secondario" o interessato ed empirico, del non-disinteresse.
Anche il livello etico-politico subisce a questo punto, secondo canoni ben precisi, l'influenza di quella teoria meccanicista, che riduceva la spiegazione del mondo(rex estensa) allo spostamento dei corpi nello spazio, secondo la formula: spazio = velocità * tempo(s = v * t ).
Dal meccanicismo T. HOBBES(1588-1679)nel De Cive, aveva tratto l'idea di uno Stato visto come un preciso marchingegno, che bisogna esattamente conoscere nei suoi meccanismi attraverso un metodo analitico di scomposizione delle parti, per trovarne le regole.
J-J ROUSSEAU(1712-1778) poi, nel Contratto sociale, vedeva l'individuo come un tutto perfetto e chiuso anteriormente al suo ingresso nella società(anche la famiglia non servirebbe ad altro che a "preparare" l'individuo); si era proposto di trovare quindi una forma di "associazione" o convivenza politica tale che gli uomini, come diversi elementi di un unico meccanismo sociale, potessero vivere assieme continuando però ad obbedire ciascuno a se stesso, perchè solo così l'uomo sarebbe libero.
E' l'idea di libertà di tipo economico, ereditata dalla Rivoluzione francese, di libertà cioè come auto-sufficienza, come "bastare a sé stessi" nel proprio rapporto con gli altri.
Kant trasferisce tale concetto dal piano sociale quello morale, dove l'auto-sufficienza viene ad identificarsi con l'auto-nomia: l'uomo è auto-legislatore, senza altro riferimento cha alla propria cosciente razionalità, ed è libero solo quando ubbidisce alla legge che lui stesso s'è dato: da qui l'etica dell'intenzione, la "buona intenzione" presa come valore assoluto.
Una interpretazione di questo principio(il dovere di obbedire alla propria coscienza, coscienza non deontologica, come quella kantiana, ma molto più relativistica e superficiale), induce a credere che l'espressione "l'ho fatto in coscienza" debba garantire di essere al riparo da qualsiasi giudizio negativo; come se le intenzioni soggettive potessero prescindere dalla struttura oggettiva dei propri atti, intrinsecamente inumani o oggettivamente pericolosi .
E' vero che l'uomo è libero in quanto autonomo, ma autonomia non vuol dire autosufficienza: la vera autonomia non è quella che prescinde dalla norma, per porla magari più "razionalmente" in un secondo tempo, "creandola" come "norma universale" o semplicemente "norma propria"; ma significa piuttosto mettersi in relazione con la norma morale, che possa essere valida per tutti, riconoscerla e farla propria in pienezza di coscienza e di volontà.
Non è l'uomo il creatore ex nihilo(dal nulla) della legge morale, è lui stesso sì fondamento ma non principio della norma, in quanto non "si crea" da sè; può e deve darsi delle norme, ma lo fa intelligentemente nella misura in cui riconosce di essere egli stesso un dato: quello che è, che ha in sè, gli permette di riconoscere in sè la norma come "giusta", bella, amabile all'intelligenza e al cuore.
In questo senso la coscienza è sì un valore relativamente assoluto, come diritto-dovere di riconoscere la norma e di aderirivi in pieno, di obbedirvi: se vi è questa assoluta certezza, uno che fosse obbligato a contraddirla può persino decidere di lasciarsi uccidere, pur di non venir meno al dettame della sua coscienza.
E' il caso dei martiri e degli eroi, che sotto la pressione degli altri o delle circostanze sono costretti a scegliere: tra un bene che oggettivamente è assoluto perché precede tutti gli altri, la vita fisica, ed uno che si può dire relativamente assoluto, il seguire l'ingiunzione della propria coscienza libera(per esempio, nel tentare di salvare un'altra vita o di rimanere fermi nella propria fedeltà a Dio, in cui si crede).
In quel caso, rinunciare al naturale attaccamento alla propria esistenza non è un gesto immorale o deplorevole, ma nobilissimo: è il tipo di scelta, che qualifica la vita come umana al massimo grado.
Ma qual'è invece per l'etica kantiana il contenuto di questa legge del dovere che uno s'impone, dicendo a sè stesso: tu devi?
Essa deve avere due caratteri tipicamente razionali:
I. della non contraddizione
II. della universalità.
Nella Fondazione dell metafisica dei costumi sono due le norme fondamentali:
I. "Agisci secondo una massima che tu possa vedere applicata come legge universale": dove il principio di autodeterminazione soggettiva(la massima) viene corretto da quello oggettivo(il carattere universale).
II. "Assumi l'umanità in te stesso e nell'altro come fine e mai come mezzo": da cui l'idea kantiana del Regno dei fini, in cui però vige il concetto astratto, lontano e indefinibile di "umanità", al posto dell'essere umano concreto, "prossimo".
Questa "razionalizzazione" porta però pure ad una "relativizzazione" del contenuto del dovere stesso, che è sempre "relativo a...", secondo le due modalità:
I. del sicut (così come vorresti per tutti...)
II. dell'in quantum (in quanto fine...).
In questa maniera la gerarchia dei valori, impossibile in mancanza di un Bene conoscibile, viene ad essere sostituita dalla gerarchia dei doveri.
Questa la genesi, per esempio, del concetto di doveri prima facie, quelli validi "in teoria" ma spesso, in relazione alla situazione contingente, non più validi "in seconda istanza"; o anche dell'idea della morale come insieme di principi in correlazione l'uno con l'altro, in modo tale che ubi maior minor cessat, un determinato dovere venga meno in presenza di un altro di ordine superiore: il dovere del medico di tutelare la vita, per esempio, viene meno di fronte al dovere di non infliggere sofferenza.
Si tratta del cosiddetto principlism, tendenza di forte presa e larga diffusione per la facilità di approccio e di adesione, circa la soluzione di questioni di etica applicata alla pratica clinica; ma che nella stessa bioetica anglosassone viene messo in discussione, da una parte perchè di fatto esclude una qualsiasi impostazione teorica dell'etica della vita come un sistema ordinato e fruibile; dall'altra perché qualsiasi sua elaborazione più generale dà luogo praticamente ad una casistica che, nel solo nei suoi abusi, esclude quel sincero sforzo di riflessione personale, che fa di una scelta "in coscienza" una scelta morale.
In conclusione, ci sembra il caso di riassumere la portata del pensiero kantiano in ambito morale, considerando la grande influenza che esso ha avuto ed ha tuttora, in maniera spesso indiretta, sull'evoluzione dei criteri morali dei singoli e delle società.
Una delle cause che spiegano la fortuna della morale kantiana, è il suo forte carattere di universalità, che va sicuramente accolto.
E' attraverso la retta ragione(cui corrisponde la "buona coscienza"), il carattere distintivo della natura umana, che è possibile mediare la norma universale, interiorizzandola come legge per la propria coscienza ed applicandola quindi ai casi particolari: il che vuol dire sapere cosa devo fare hic et nunc , qui ed ora, ed avere la forza interiore necessaria per farlo. Da questa giusta istanza di universalità della norma, non è difficile però cadere nell'errore del legalismo deduttivista: "nella legge universale c'è già tutto, basta dedurre dei principi".
Se per Kant si può parlare di dovere, mai si può parlare veramente di valore, categoria essenziale all'intima esperienza morale, da cui la sua etica avulge e rifugge completamente, come abbiamo visto.
Il neo-kantismo si presenterà tuttavia, in seguito, come "filosofia dei valori, in quanto fu Kant che per primo riconobbe in pieno il peso della ragione umana, nell'elaborazione di una legislatività universale.
Egli fonda la morale di tipo deontologico, del dovere come fine, in contrapposizione a quella eudemonologica del tipo classico o empirico(eudaimonìa = felicità, etica quindi della felicità o del piacere come fine).
L'etica si basa per lui sulla ragione auto-legislatrice, in quanto crea la norma: in netto contrasto con le etiche di tipo cristiano, in cui la ragione è la regola immediata(s.Tommaso) degli atti umani, ma mentre li misura è misurata dalle leggi fondate sulla natura umana(leggi che vanno "lette" attraverso lo studio di tale natura e delle sue inclinazioni).
Le conseguenze di un'etica di questo tipo sono:
1. DIO scompare dal panorama morale dell'uomo: non è più né legislatore, né sommo bene, né fine, ma solo "garante esterno" della fede morale in una giusta ricompensa alle attitudini(virtù) o agli atti buoni.
2. Viene cassato il concetto di natura umana, salvo che come aspetto empirico, "interessato" o patologico.
3. Si afferma l'assoluta autosufficienza della ragione umana, per cui l'uomo è libero soltanto se ubbidisce alla norma che lui stesso si è dato. Questa non è una conseguenza logica, correlata ad una conoscenza, ma un postulato, il postulato dell'auto-legislazione, unica soluzione possibile per la morale dopo il fallimento della ragione puramente speculativa(la "Ragion Pura").
Questo postulato influisce di molto sul concetto di libertà, che è strettamente collegato al discorso morale, in quanto è chiaro che una scelta non può essere morale se non è libera.
Kant ha insistito molto sulla coscienza "normale" come "luogo metafisico della morale"; dire coscienza significa dire libertà come capacità di scegliere-per, di oltrepassare responsabilmente la barriera del proprio io: la coscienza è per lui l'unico luogo dove è possibile il contatto con l'assoluto, che si "sente" nel punto preciso in cui si ha il "senso del dovere".
Certo occorre con Kant ribadire che la vera libertà è il segno vivo ed operante della coscienza, di una interiorità presente nell'essere umano che lo qualifica in modo diverso rispetto alle cose o agli animali, cui nessuno si sognerebbe di attribuire la stessa libertà e responsabilità che all'uomo.
Ma se la libertà umana, la dimensione morale quindi, viene fatta coincidere con la coscienza individuale, se la libertà è data solo dal dare a sè stesso una legge per obbedirvi... ne consegue che non è degno di dirsi o di essere libero(di vivere e scegliere liberamente) non solo chi non si dà in modo del tutto autosufficiente e cosciente delle norme(=auto-legislazione), ma anche chi è impossibilitato a farlo: neonati, minori, minorati mentali, malati, tutti coloro insomma che non siano nel pieno possesso di tutte le proprie facoltà, "non sono partecipanti primari all'impresa morale", come ha affermato esplicitamente H.T. ENGELHARDT, notissimo esponente della bioetica anglosassone "progressista" .
4. Perde senso l'idea di bontà individuale: essa può infatti essere raggiunta non dall'interno dell'uomo, tramite un perfezionamento di sé dovuto anche al compimento di atti buoni o azioni morali...ma semmai dall'esterno, attraverso la possibile estensione della massima a legge universale.
5. Si apre la strada all'etica idealistica: non è il pensiero che si regola sull'essere, ma l'essere che si regola sul pensare umano(come avviene per le scienze sperimentali che "regolano", attraverso la determinazione razionale di ricerca e sperimentazione, l'essere delle cose"come appare").
La teoria morale quindi non si fonda sulla realtà(in quanto inconoscibile), per Kant: ma vale ad interpretare la realtà "nella sua intima natura":"l'obbligatorietà dell'imperativo categorico-egli scrive-scaturisce dalla pura forma della ragione"(Fondamenti della metafisica dei costumi, sez.II).
Età contemporanea: l'etica idealistica
La morale di tipo idealistico si basa esclusivamente sulle categorie dell'intelligere razionale, sempre misurante e mai misurato da alcunché.
In dase al postulato dell'auto-legislazione, la razionalità diviene un assoluto non misurabile: attraverso la necessità di una "fede morale" sostenuta da una "ragion pratica", dal massimo del disconoscimento del valore della speculazione(vedi il fallimento della Ragion Pura), si perviene così al massimo della sua esaltazione.
Hegelianamente tale assoluta positività coincide con la sua negazione, come conoscenza oggettiva: se infatti è il pensiero, la conoscenza razionale che fonda l'essere, l'oggetto è costituito dalla conoscenza che se ne ha, come "oggetto della scienza", esso non ha valore in sé, non ha alcun valore "oggetttivo": quindi anche la conoscenza non può mai essere oggettiva.
E' quella che si chiama l'impostazione euristica della conoscenza(mutuata dalle scienze empirico-sperimentali), la quale nega appunto il valore oggettivo di alcunché: vale solo ciò che è conosciuto, relativo al "conoscente".
Approfondiremo attraverso lo studio dell'etica hegeliana questi concetti, che sembrano talmente astratti e lontani dai problemi concreti, mentre invece dal punto di vista della bioetica sono di stretta pertinenza.
Basti pensare alle applicazioni pratiche del criterio secondo il quale "ciò che è", un essere, non ha un "valore" oggettivo, ma vale solo relativamente a chi lo conosce o riconosce come tale.
Un feto, per esempio, o anche un embrione: è riconosciuto come degno delle massime attenzioni se è "pensato" come "il bambino mio" o "che devo far nascere" per conto terzi, vale molto cioé in relazione al "conoscente"; se invece non si vuole vederlo in relazione a qualcuno, se la madre in particolare(con cui di fatto è già in stretta relazione psico-fisica) si rifiuta di "riconoscerlo"(come figlio), allora tale essere vivente è privo di qualsiasi valore(tanto meno diritto), "non è niente per nessuno".
Lo stesso ragionamento potrebbe applicarsi ai malati in fase terminale o in coma, la cui vita viene spesso considerata ormai "senza valore", se non "relativamente" ai parenti(in inglese appunto: relativs) cui sta a cuore.
Altrettanto fondamentale è l'impostare o no la questione della conoscenza morale, in modo idealistico: come teoria etica basata assolutamente sulla razionalità, non misurabile da altro, però mai "oggettiva"(perché il suo oggetto prende valore, consistenza, dalla stessa conoscenza razionale).
Nel caso dell'etica che riguarda la vita, non è certo cosa da poco tacciare di "dogmatismo" tutti coloro che non danno per scontato in partenza, l'uso esclusivo di una razionalità sciolta(ab-soluta) da qualsiasi altro vincolo; la quale poi, è destinata a non approdare mai ad una morale oggettiva, a delle norme sicuramente valide, che come la legge imparziale siano uguali per tutti(anche se il momento della loro applicazone al caso particolare, non potrà naturalmente prescindere dall'esercizio personale di intelligenza e senso morale, dall'uso della propria coscienza).
L'etica di Hegel è preceduta dall'idealismo etico di J. FICHTE(1762-1814), che si presenta come un geniale approfondimento della conclusione di Kant: il postulato che il fatto della coscienza dà una certezza superiore a quella fornita dalla ragione, egli lo trasferisce dal piano soggettivo a quello di una interiorità oggettiva cui dà il nome di IO "trascendentale".
Continuano quindi ad essere viste come contrapposte le due componenti della morale(coscienza soggettiva e ragione oggettiva), dietro la scia del presupposto empirista che il piano speculativo-spirituale e quello ontologico-esperienziale siano non solo distinti ma separati, nell'essere umano come nella realtà fisico-animale.
Perso del tutto, così, il contatto tra etica e realtà oggettiva, la speculazione morale si orienta ad indagare i rapporti tra coscienza individuale ed istituzioni, nelle quali si concretizza l'idea di libertà.
Sensibile al bisogno di interpretare i problemi etico-sociali che si presentano nel corso della storia, G.F.HEGEL(1770-1831) compie un ulteriore passaggio dialettico, quello all'IO "assoluto": dall'etica come mera coscienza della legge interiore, la moralità individuale, all'eticità o morale sociale , in cui il concetto di libertà diviene il "mondo esistente o natura dell'autocoscienza" .
Sarà il medesimo interesse storico-sociale, interpretato in senso schiettamente positivistico, a suggerire a K.MARX(1818-1883) ed a F. ENGELS(1820-1895) il rovesciamento totale dello storicismo idealistico in materialismo storico, dal cui punto di vista le idee morali non sono che il riflesso teorico di bisogni economici(come lo sono, in genere, tutte le "ideologie").
Posto questo capovolgimento dell'interesse etico, dalla dimensione personale a quella collettiva, non meraviglia che tutta la trattazione hegeliana dell'etica sia in sostanziale polemica con quella kantiana.
Facendo uno stringente esame delle "forme etiche"(il proposito, l'intenzione, il benessere, il bene e il male), Hegel individua tutta l'insufficienza della "morale del dovere":"una cosa vuota come "il bene per il bene" non ha assolutamente posto nella realtà vivente", egli scrive nella Filosofia della Storia; egli osserva che "il dovere per il dovere" non può che portare ad un'intima scissione(concetto tutto romantico, di matrice protestante) all'interno stesso dell'animo dell'uomo.
Solo attraverso l'eticità invece l'uomo può realizzare il suo mondo oggettivo: in essa egli non vede più un'imposizione(per quanto interna e auto-data:l'imperativo categorico), ma la realizzazione dei suoi stessi diritti.
Hegel continua articolando la sua idea di eticità come un quid di diverso: mentre caratteristica del diritto astratto è la coercizione, e quella della moralità è l'obbligo, caratteristica dell'eticità è la fiducia, che sarebbe il trasporto spontaneo dell'individuo verso i suoi simili(concetto che ricorda da vicino quello della "spontanea simpatia", invocata da Hume per spiegare la possibilità di un ordinamento sociale, in mancanza di un qualsiasi ordine morale oggettivo a fondamento delle leggi).
Le concrete unioni dl singolo con i suoi simili sono famiglia, società civile, Stato: le tre "forme fondamentali" dell'eticità.
La costituzione dello Stato realizza così l'ideale, proprio di Hegel, di un'etica "positiva", cioé di un'etica non cristallizzata in leggi "astratte", ma concretizzata in un sistema organico di leggi ben individuate.
Anche qui, nella dimensione del "rapporto con gli altri", si perdono le altre due dimensioni della morale impostata nella sua completezza: il rapporto con l'Assoluto e il rapporto con se stesso, atteggiamenti ciriticati come "individualismo religioso" già nel 1842 dall'esponente della "sinistra hegeliana" B. BAUER (1809-1882).
Invece, per l'individualismo di marca britannica, da D.HUME a N.K.SMITH(1872-1958) ed al contemporaneo HAYEK, proprio l'individualismo è un valore portato dalla naturale evoluzione della società.
Non è difficile rilevare come le teorie hegeliane abbiano conseguenze morali che sono assai più significative della sua dottrina etica la quale, proprio perché si configura come "eticità", ha ricevuto maggiore attenzione sul piano storico e politico, dove d'altronde ha dimostrato tutto il suo potenziale negativo.
Non è il caso, in questa sede, di tentare di delineare le assi portanti del suo pensiero in modo minimamente compiuto; ma possiamo addurre un paio di esempi abbastanza chiari, sulla base di due concetti hegeliani abbastanza noti:
I. "il reale è razionale" e viceversa, vale a dire: l'unico essere reale è il razionale;
II. il "continuo divenire", in quanto processo dialettico di affermazione-negazione interno all'essere reale stesso, ha carattere di necessità.
I. Per Hegel, l'essere non ha altro modo di essere che lo scientifico, vale a dire il razionale presente alla mente umana: errore ereditato anche da Kant, che nel sapere scientifico vedeva il "tutto" dello scibile.
Questo pregiudizio incatena sin dall'inizio il genio hegeliano, il quale appunto giunge a vantarsi di aver cavato da questo "primo vero" non solo tutta la scienza ma tutte le cose reali e sussistenti.
Ma per questa via, nota Rosmini , si giunge col non poter riconciliare più il pensiero con l'intelligenza umana, che pure esiste prima del suo esercizio ordinato e sistematico!
II. Affermando la necessità del divenire la libertà viene di fatto negata, per due motivi:
1. se l'attività dell'intelletto non riconosce ma conferisce la forma dell'universalità al contenuto della stessa attività intellettuale(se cioé l'universalità della legge morale è non solo rilevata ma data dall'esercizio razionale), allora tale universale è astratto, e come tale si oppone al particolare, all'individuale.
Questo carattere universale della legge morale non contempla più la libertà, non ha più cioè i caratteri soggettivi, intellettuali e morali, che ancora sussistevano in Kant.
L'individuo viene così inghiottito dall'universale astratto, dallo Stato, scompare con le sue esigenze di fronte a quelle della collettività.
Non ha più diritto ad una sua libertà come essere finito, limitato, perché "ogni finito è il superare se stesso nel tutto", Hegel afferma, in quello Spirito che si realizza nella Storia, cioè nello Stato.
Ed a questo punto, cosa singolare, lo stesso Hegel porta l'esempio dell'embrione umano:"se l'embrione è in sé l'uomo, non lo è tuttavia per sè; per sé lo è soltanto come ragione dispiegata", egli scrive.
L'uomo in embrione non vale quindi per se stesso, non ha una dignità propria: perché l'anima motrice del processo di sviluppo, come pure del procedere scientifico-razionale, per lui non sta nello stesso "essere" "umano" ma nella dialettica, nell'attività razionale della mente umana; sta in quel divenire continuo che secondo lui è il principio in base al quale reale(quel ch'è qui ed ora) ed ideale(quel che sarà e deve essere) sono in "necessaria connessione", come sono in connessione l'uno (l'individuo) ed il molteplice (feto, neonato, bambino, adulto).
Ma proprio questo strettissimo nesso tra il reale(l'essere umano) ed il razionale(l'attività dialettica delle idee), al punto che il primo non è, non vale senza il secondo; è proprio quel carattere di necessità che fa perdere quello fondamentale di libertà, la quale per sua natura si oppone alla costrizione necessitante di alcun genere.
E' chiaro che se non c'è libertà non vi può essere autentica moralità, in quanto il carattere della libertà è fondamentale, è condizione necessaria(anche se non sufficiente) perché un'azione sia veramente "morale".
Ma Hegel va più in là: per lui non ha senso parlare di moralità o di "valore" per il singolo, la cui valenza coincide con il procedere dialettico dello Spirito razionale, consiste cioè nel continuo divenire, nel progresso infinito della Storia, e dello Stato nella storia: egli parla infatti di eticità, di "morale collettiva", statale.
Per essere "irreprensibili" basta essere dentro questa forma astratta dell'eticità, che è possibile configurare in leggi positive, statali: nel privato ognuno è libero di adottare qualsiasi comportamento, senza per questo essere immorale.
In definitiva, di fronte alla responsabilità penale si eclissa quella morale: l'etica è di fatto scomparsa.
Una primissima potente confutazione dell'impostazione razionalista di Hegel, scomparso nel 1831, venne dal già citato A.ROSMINI(I797-1855), che, nato a Rovereto, conosceva perfettamente il tedesco e seguiva con molta attenzione il dibattito culturale della sua epoca.
In lui restano presenti i punti fermi dell'impostazione tradizionale: al centro dell'attenzione morale sta l'atto umano, che è appunto morale o immorale in quanto voluto; volontario in quanto libero; veramente libero in quanto cosciente, vale a dire consapevole ed avente libero accesso alla conoscenza del valore, la quale coincide con l'obbligazione " in coscienza" a fare o non fare qualcosa(sono veramente libero di scegliere, quando "so" effettivamente quanto vale, è in sè "obbligata" una certa scelta); l'azione è morale, quando il sapere qual'é la scelta oggettivamente giusta ed il compierla con persuasione soggettiva coincidono.
L'elemento di novità apportato, consiste invece nell'accentuazione dell'elaborazione morale come sussistente alla natura della persona, tanto da fargli coniare la potente espressione:"la persona è diritto sussistente".
La persona e non i suoi atti è il vero centro della morale: la persona concreta, come soggetto capace intrinsecamente di morale, non come oggetto di studio dell'etica: prima ancora che avere dei diritti essa è il fondamento stesso di ogni diritto umano.
Molte delle stesse Costituzioni odierne dicono che i diritti umani sono riconosciuti mentre dovrebbero dire fondati giuridicamente: il loro valore in effetti non dipende dal riconoscimento di cui godono, per benevola concessione degli Stati, ma è intrinseco all'essere umano stesso.
Infatti l'uomo "ha diritto a quello che è", vale a dire, come scrive Rosmini nella Filosofia del diritto, "alla conservazione ed all'uso delle sue facoltà", intellettive, volitive, biologiche, personali, etc.
La persona non è mera "esistenza"(seconda certa moda filosofica) ma è una "realtà sussistente"cioé vivente, che nel suo valore primo ed originario si può apprendere come valore morale e riconoscere come diritto.
Ciò per Rosmini esclude una concezione che risolva la persona nella pura capacità razionale, come "entità" che si elevi alla dignità umana solo attraverso l'attività intellettuale.
Egli afferma esplicitamente che la scienza etica deve fondarsi sullo studio dell'uomo, è lui il primo, nel XIX° secolo, ad usare il termine antropologia, usandolo nel titolo di una sua opera:Antropologia in servizio della scienza morale: perché è l'etica che è fatta per l'uomo, e non viceversa, essa deve quindi necessariamente basarsi sulla conoscenza della vera natura dell'uomo.
Tale natura è per Rosmini un unico nucleo ontico o "unione individua", tra struttura biologico-percettiva e struttura intellettiva:"l'unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana".
L'esercizio della razionalità infatti non potrebbe aversi senza "la parte animale che presta all'intendimento i segni delle cose reali, per mezzo delle quali l'uomo le pensa".
E senza questa "parte animale" che percepisce e trasmette segnali all'intelligenza, l'uomo non è dunque tale, come sostengono molti neurologi in assenza delle attività della corteccia cerebrale di una persona?
Per il filosofo di Rovereto, "la persona è un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene in sé un principio attivo, supremo ed incomunicabile".
L'espressione "contiene" potrebbe erroneamente far pensare ad una vecchia concezione del corpo "contenitore" dell'anima, che non corrisponde all'intendimento dell'autore; il quale specifica che "nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo".
Tale principio attivo risiede in quel sinolo inscindibile che è la persona umana, e per volontà-come per libertà- si deve intendere non quella nella pienezza del suo esercizio ma, ancor prima, "ciò che gode di piena autonomia nell'ordine dell'agire"; si tratta di quel principio attivo umano anche nell'ordine biologico, a cui perciò "deve essere consentita piena autonomia nell'ordine dell'esistere".
E' il caso della "volontà" di un neonato, un feto, un embrione umano, un miniorato mentale o un comatoso persistente, in cui è presente la volontà come "principio attivo come abbiamo avuto modo di spiegare altrove .
Parlando di persona umana, non si può ammettere una effettiva separazione tra "anima" e "corpo" che non sia una distinzione puramente mentale: se è reale, si deve parlare di cadavere e, per chi crede nell'immortalità dell'animo umano, di anima sopravvissuta al suo corpo; della quale comunque si occupa la teologia(salvare le anime è lo scopo della Chiesa) e non la morale, che si rivolge a tutta la persona.
Senza attardarsi ad illustrare qui i termini della teoria rosminiana della conoscenza e della morale, basti ricordare: l'essere che si presenta alla percezione intellettiva come verità, diventa il bene che la volontà deve attuare.
La stima speculativa inquadra i vari esseri nella loro gerarchia, nel posto che occupano in base al grado di essere che hanno; la stima pratica riconosce con l'intervento della volontà l'essere conosciuto, e coincide con l'agire morale.
La giustizia, l'essere giusto, consiste appunto nel riconoscere a ciascun essere il suo essere e nel dargli quindi quanto gli spetta: consiste quindi per esempio nel trattare gli animali da animali(non da cose), gli uomini da uomini, Dio da Dio.
Quello di Rosmini non è "intellettualismo etico" né "volontarismo": perchè entrano in gioco il riconoscimento speculativo della legge morale(l'ordine dell'essere) insieme all'intervento attivo della volontà, in quanto è "attirata"(ispirazione agostiniana) dalla "bellezza" o "giustezza" dell'oggetto che contempla come verità o bene: ad esso la persona come soggetto dell'azione sceglie liberamente di aderire( lo ama e lo segue).
"Volere una cosa è riguardare quella cosa come bene e amarla", scrive Rosmini nell'Antropologia in servizio della scienza morale e:"la volontà è un atto d'amore per la sua essenza"( Teosofia ).
La volontà nel suo senso più autentico, "potenza" o libertà di potere che si manifesta in questo "primo atto volitivo", è per lui "l'amore naturale all'essere in universale"(in quanto ogni essere è bene in quanto è).
In questo riconoscimento speculativo e pratico sta l'obbligatorietà di un'azione, questo atto così personale in cui soggetto ed oggetto si compenetrano è il vero "imperativo categorico" per l'uomo; il quale conquista la dignità che gli appartiene con l'essere coerente tra ciò che riconosce e ciò che fa, quindi, "in coscienza".
Ciò che fa risulta allora un'azione buona oggettivamente, come riconoscimento di un ordine dell'essere oggettivo(dato), ma anche soggettivamente, come libera adesione alla verità riconosciuta ed amata.
L'uomo, dice Rosmini con Kant, non può essere mai mezzo ma fine di un'azione, in quanto è essere morale: "essere capace di conoscere e volere il bene, cioé di amare, congiunto ad un ente finito".
Un altro pensatore critico verso l'Hegelismo, ma di impostazione e caratura assai diverse, fu il noto L. FEUERBACH(1804-1872), iniziatore di quell'umanesimo naturalistico che com'è noto ha preparato la strada al materialismo dialettico.
Egli affermò che l'attività speculativa non è l'espressione più assoluta della realtà o verità, ma è la conclusione di un processo che dà realtà ai concetti e toglie realtà ai reali soggetti esistenti: essa aliena l'uomo dalla propria essenza.
La critica era centrata, ma le conclusioni portate all'estremo: egli afferma che ogni atto di astrazione (ogni elaborazione concettuale) è un atto di alienazione, perché consisterebbe nel porre la natura, l'uomo, il pensiero "fuori di sè".
Persiste come si vede il pregiudizio dualista tra la res cogitans e la res extensa, inficiato per dippiù di idealismo: l'oggetto del pensiero (che però: continua a coincidere col pensare, non ha una valenza o oggettività propria), l'essere pensato cioé, non corrisponde affatto con l'essere pensante è alienus , è totalmente "altro" rispetto a lui.
Ci troviamo davanti agl'immediati presupposti del pensiero di Marx ed Engels, al quale appartiene la perentoria frase: "I filosofi hanno finora interpretato diversamente il mondo, si tratta ora di trasformarlo".
Attenendoci alla linea seguita finora, ci occuperemo però del pensiero dei nostri autori solo per rilevarne il risvolto morale in funzione della bioetica.
Nel "materialismo dialettico" di Marx elaborato da Engels, il soggetto del processo di auto-legislazione ed anzi di auto-creazione continua non è più come si sa la coscienza, comz per Kant, o l'idea o lo Spirito, ma la natura e l'uomo come parte della natura.
Esaminiamo brevemente le tre tesi formulate con categorica perentorietà da Engels, le tre leggi che sono alla base della "dottrina della dialettica", imperante col pensiero comunista ed in particolare nella filosofia sovietica:
I^. Legge del passaggio della qualità in quantità, secondo la quale ogni processo di sviluppo ha una duplice fase: una prima puramente evolutiva, nella quale si hanno soltanto cambiamenti "quantitativi", non essenziali; una seconda rivoluzionaria, nella quale per mezzo di un "salto", in virtù del precedente cambiamento quantitativo protratto oltre un certo punto critico(come l'acqua si trasforma in vapore oltre i cento gradi).
Tale legge spiegherebbe anche la comparsa della vita dalla materia inorganica e la coscienza umana spirituale dalla psiche animale.
II^. Legge dell'unità e lotta degli opposti o "principio di contraddizione" interna-non solo in senso logico- come "lotta degli opposti" che spiega un "moto"(non solo meccanico) senza alcun "primo motore".
III^. Legge della negazione della negazione: è il processo di evoluzione ascensionale che "conserva", pur negandolo, il livello precedente.
Con queste tesi o leggi il materialismo dialettico ritiene di dare giustificazione razionale e far posto nel proprio sistema, a tutto ciò di umano che non è materiale(la vita dello spirito), ma sono inevitabili alcune conseguenze, capitali per l'etica:
I^. se il fenomeno spirituale sorge da quello materiale, le scelte morali non sono in fondo che il frutto di pulsioni biologiche o condizionamenti economici, strutture socio-culturali, etc.;
II^. la libertà viene intesa come "coscienza della necessità" e si riduce alla facoltà di prendere decisioni "con cognizione di causa";
III^. Niente è veramente negativo: la finalità(umana, non naturale, anche se ciò è in contrasto con l'affermazione di leggi "dialettiche" della natura)viene posta accanto alla causalità, vale a dire la categoria del dover essere accanto a quella dell'essere: da cui consegue il largo uso della constatazione dei fatti in luogo di valutazioni morali, e viceversa.
Una prima valutazione critica evidenzia alcune incongruenze di "materialismo" e "dialettica":
A. si afferma la superiorità della vita e della coscienza sulla materia inorganica, ma: come giustifica, filosoficamente e scientificamente, questa superiorità, oltre alla prova dell'evidenza?
B. si riconosce il principio di causalità, ma tale principio esige una causa adeguata alla comparsa del nuovo, causa avente per lo meno lo stesso grado(ontologico, di essere)di perfezione dell'effetto da produrre: anche qui, come si spiega il "sorgere spontaneo" del superiore dall'inferiore?
C. si afferma l'eternità(escludendo che sia stata creata) ed infinità della materia, ma non si comprova con argomenti scientifici né argomentazioni logico-speculative.
Tali aporie non escludono affatto l'asserzione assoluta delle leggi relative: ciò non fa che confermare il carattere aprioristico e dogmatico del materialismo dialettico, che non inficia ma rafforza l'enorme potenziale negativo contenuto nelle sue tesi, al fine di costruire di un'etica solidamente fondata.
Si scontrano in genere due modi di concepire la morale:
l'uno di tipo empirico-idealistico, come insieme di regole di comportamento che rendano possibile la vita sociale, impedendo di recarsi danno a vicenda: una morale sociale che abbandona quella privata all'arbitrio dl singolo;
l'altro di tipo realistico-cognitivo, che ricerca nella sua radice l'essenza della vera morale, cioè del bene, da cui derivare delle norme proponibili ad ognuno perché ne derivi una buona società.
L'etica e la bioetica di ascendenza marxista non appartiene a nessuna delle due posizioni, ma oscilla tra una visione da "scienza totale", che mostra la natura "ideologica" della morale(riportandola agli interessi della classe dominante) ed il proporsi come la visione del mondo più umana.
L'attacco dei classici della cultura di sinistra contro la morale va di pari passo con la convinzione della natura etica del socialismo, che solo quando sarà realizzato garantirà il passaggio da una "preistoria" etica ad una fase in cui il fenomeno etico cambia natura: morale è la giustizia sociale e la transizione sarà determinata dall'abolizione della proprietà privata.
Ecco la dimensione etica ridotta a quella economica, riduzione che preclude la comprensione della specifica natura del fatto morale.
In bioetica per esempio, verrà visto come non-etico il commercio di parti del corpo umano o la non-estensibilità di alcune cure a tutti per motivi di ordine economico, ma verrà banalizzata la difesa della vita dai suoi inizi, questione che non ha rilevanza economica se non relativamente ai costi per il singolo o per la Sanità.
In generale, data questa riduzione dell'etico all'economico, è chiaro che il giudizio etico sull'azione è pronunciato in rapporto al fine: il fine(ottenuto) giustifica il mezzo; ed in fondo l'etica non è strettamente necessaria al fine ultimo(il cambiamento sociale dal punto di vista economico).
Certo anche nel marxismo c'è un "primo etico", un summum bonum che è l'uomo stesso, nel senso della sua liberazione, del suo sviluppo in tutte le direzioni, ma sempre sul piano materialistico.
Questa impostazione "finalistica" è apparentemente molto simile a quella teleologica classica, che struttura cioé l'ordine morale rispetto al fine(télos).
Con la differenza fondamentale però, che il Bene Assoluto per l'una coincide con l'uomo, "l'uomo è per l'uomo l'essere supremo" è affermazione tipica di Marx, il quale si riferisce ad unaspecie di "personalismo comunitario"; per l'altra invece, il Sommo Bene non è l'uomo, anche se è conoscibile a partire dall'essere umano e raggiungibile dall'uomo stesso, il quale naturalmente è un bene sommo, indisponibile.
In questo umanesimo sui generis una grande capacità di "indignazione morale" si intreccia con una "indifferenza scientifica" per la morale, in quanto "non ce n'è bisogno"; V. LENIN (1870-1924) affermava tranquillamente: "Noi teniamo conto della legge morale, nella misura in cui può essere fondata materialisticamente"
La base di questo "umanesimo" sta nella visione dell'Uomo come Essere Supremo(esso è quindi intrinsecamente a-teo, senza-Dio), Essere umano puramente biologico o anche psicologico ma comunque assiologico, capace cioé di valutare e di essere valutato(richiamo all'etica dei valori di tipo kantiano).
Mentre questa impostazione dell'uomo come assoluto è comune alle ideologie provenienti sia dalla "sinistra" che dalla "destra" hegeliana(unica è la matrice di riferimento: il razionale umano come fondamento di tutto il reale), esse si differenziano là dove la destra vede questo concetto incarnato nell'individuo esaltandone l'identità personale, il Super-Uomo; la sinistra piuttosto lo reclude nel suo essere-in-relazione, per cui l'uomo in fondo non è che l'insieme dei suoi rapporti sociali.
Ma quali sono gli assiomi di valore o criteri direttori dell'etica marxista?
Il primo: è valore tutto ciò che arricchisce e sviluppa l'essenza umana generica.
Il secondo: è valore basilare che gli individui possano partcipare-appropriandosene- alla ricchezza di sviluppo in genere.
Ma con ciò resta aperto il problema: come garantire l'autonoma identità dei valori, la loro stabilità rispetto alle variazioni individuali ed al continuo divenire del "progresso" storico?
Qualsiasi etica normativa può stabilire l'agendum ed il vitandum, ma nessuna è autosufficiente, basta da sè sola a rispondere alla domanda:perchè devo? Perché le sue norme siano autorevoli, la morale deve porre le sue basi su un fondamento.
L'autonomia dell'etica si fonda su quell'idea che è anche una realtà, l'idea della lex naturalis, l'unica che può garantire l'autonomia della morale umana rispetto ai fattori contingenti di ordine storico, geografico, culturale, e così via.
Tale autonomia della morale fondata sulla natura umana, in quanto ordinata da una sua legge interna, è anche l'unica che garantisce l'autentica libertà di azione per l'uomo; non a caso la concezione etica di tipo marxista nega in gran parte la libertà che è alla base di un comportamento etico, sostenendo per esempio il cosiddetto automatismo: la modifica delle strutture sociali deve ripercuotersi direttamente e necessariamente sulla modifica dei comportamenti umani.
E non è un caso che la cultura marxista contemporanea, di sinistra o "progressista", prema sistematicamente per evitare "un'introspezione etica autonoma e speculativa".
Ci sembra opportuno accennare alle impostazioni etiche che si basano sulle correnti culturali più attuali, meno approfondite sul piano della struttura speculativa, ma che sono forse oggi quelle comunemente diffuse, o almeno proposte più di consueto dai mass-media.
Sarà così più agevole centrare l'obbiettivo che ci proponiamo, cioé di sottolineare, scorrendo la storia del pensiero morale precedente, quanto le tendenze(trends) etiche attuali siano condizionate da quelle passate.
Tutte hanno attualmente in comune alcune caratteristiche:
- il rifiuto di conferire all'etica o alla bioetica il carattere di scienza;
- la mancanza di una teoria etica globale, e consideri l'agire umano nella sua completezza;
- la sconnessione tra etica e suo fondamento meta-fisico;
- il relativismo etico, derivante dalla convinzione che la verità o non esiste o non si può conoscere, specialmente in campo etico("etica senza verità"): non accetta perciò il ricorso a valori che trascendano le scelte umane, la scelta di un "bene più alto" piuttosto che non il "bene per me", relativo a sé stessi;
- un certo disordine nei termini e nei concetti.
Tali correnti etiche sono:
il gius-positivismo, strettamente derivante dal positivismo, da A. COMTE(1798-1857) al contemporaneo MILE, positivismo dal quale a sua volta discendono:
l'utilitarismo sociale, che intende come criterio ultimo della moralità le conseguenze di un'azione: è bene obbiettivamente quanto risulta meno spiacevole e più utile al singolo ed al maggior numero di individui.La ragione ha dunque il compito di effettuare il calcolo costi-benefici degli interventi ipotizzati in base alle "obiettive" procedure di risoluzione delle questioni etiche;
lo psicologismo, collegato all'irrazionalismo vitalistico di Nietzsche e frutto del boom della psicanalisi, da Freud in poi: intende la morale come esplorazione e cura della psiche, come interiorizzazione e scoperta dell'io, della soggettività propria.
In questo caso, è morale tutto quanto io a livello di coscienza soggettiva "sento" come tale; qualsiasi autorità oggettiva è vista perciò come "esterna" a me stesso e quindi come principio di repressione(Marcuse). L'ideale sarebbe l'eliminazione della morale.
Ne consegue inoltre che chi agisce in modo coscientemente immorale non può che essere uno squilibrato(non un perverso);
il sociologismo, per il quale le norme etiche derivano dall'elaborazione diretta o dall'indiretta influenza di un ambiente sociale, ma bisogna sottostare a delle norme imposte dall'esterno per sopravvivere, a livello sociale e psicologico: esso confonde l'esistenza di un valore con la sua apparizione storica o a livello di percezione sociale, mentre in qualsiasi epoca possono essere presenti condizionamenti sociali che oscurano delle verità evidenti;
il neo-positivismo logico, che in definitiva considera la morale solo un fatto emotivo: la coscienza va rispettata ma è solo un fatto privato, e lì va relegata.I giudizi morali sono solo elaborazioni logiche che esprimono sentimenti personali, hanno perciò un valore prescrittivo loro proprio, e basta;
il contrattualismo, sostiene che è morale quanto è frutto di un libero contratto tra due parti; è il contratto, insomma, che fonda non solo il diritto ma la moralità di un atto. Compito della ragione in questo caso, è solo quello di elaborare accordi sulle procedure più giuste che permettano a tutti uguali opportunità, affinchè le persone o i ceti che non hanno nulla da dare "in cambio", non siano automaticamente esclusi da questa reciproca simmetria sociale(contratto-diritto-moralità);
il relativismo etico, un assoluto relativismo nella sfera della conoscenza e della morale, che è tendenza ricorrente nella storia culturale, dagli antichi Scettici agli empiristi del '7OO; è a tutti nota la sua notevole ripresa nel nostro secolo, tanto che esso accorpa la maggior parte delle correnti etiche appena citate.
Bisogna intanto distinguere tra relativismo culturale, metodologicamente indispensabile alla ricerca scientifica per "conferire rigore oggettivo all'osservazione e alla descrizione delle varie culture" , e relativismo etico, il quale sostiene che:
1. non si può desumere un valore da un fatto, nel derivare il dovere dall'essere consisterebbe la fallacia naturalistica ("scoperta" come si è detto dall'empirista Hume, nell'etica tradizionale);
2. ogni società ha i suoi valori, le sue idee di verità, bontà, oggettività etc., che sono determinati dalle tradizioni socio-culturali del gruppo.
Dati questi presupposti, "c'è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte l e fasi dello sviluppo umano. E' il principio: qualsiasi cosa può andar bene (anything goes)": a sostenere in termini così chiari quella che attualmente è una tendenza del pensare comune in forte espansione, è uno dei più accaniti sostenitori di tale "relativismo assoluto", P. FEYERABEND .
Si tratta del relativismo etico comune a tutto il pensiero "debole" che oggi va per la maggiore: l'individuo dovrebbe guadagnarci l'assoluto rispetto altrui per qualsiasi sua scelta o posizione morale, mentre ci rimette una più nobile e non per questa meno autentica concezione di uomo, perdendo il rispetto di se stesso nella sua essenza.
Senza dubbio infatti, l'uomo non può che essere visto come un essere psico-biologico di una specie animale singolare, che si distingue solo per essere capace di attività psichiche superiori con le quali costruire particolari strutture sociali, politiche e culturali; non è più di tanto, l'essere umano, se non è più riconosciuto come un'unità sostanziale inscindibile di dato "materiale" e dato "spirituale", dotato di un'effettiva capacità di conoscere il vero e di agire, facendo il bene (o il male) in modo cosciente e libero.
A spiazzare questo tipo di antropologia(concezione dell'uomo) tradizionale, storicamente sono tre passaggi della storia del pensiero occidentale:
1. il passaggio da un sistema geocentrico(antropocentrico) all'idea di un universo incommensurabile ed in fondo inconoscibile, di cui cioè non è più possibile una conoscenza completa e perciò reale: secondo la convinzione degli illuministi, non a caso promotori di una Encyclopedie, che laconoscenza non è per gradus, ma è vera solo se è totale;
2. l'impostazione scientifica che travalica su quella speculativa, maturando verso l'evoluzionismo: non c'è alcun determinato essere fissato in una sua natura, tutto è in continua evoluzione;
3. il centro dell'uomo si sposta dal momento conscio all'inconscio, dal quale sarebbero pilotate molte nostre azioni, piuttosto che non dal libero arbitrio.
Il Positivismo fu fondato com'è noto da Augusto COMTE, ma non tutti sanno che egli fu per dieci anni segretario di Claud Henry de SAINT SIMON (1760-1825), il quale pensava che la classe degli industriali (banchieri ed economisti) avrebbe soppiantato quella dei militatri e dei "legali"(legislatori, politici, giudici etc.) rendendo inutili i conlitti sociali e nazionali.
A lunga distanza, tale premonizione circa il monopolio del fattore economico, o della lobby dell'alta finanza in campo etico-sociale e politico, acquista un particolare valore nel nostro tempo, in cui un forte neo-positivismo reitera l'istanza, di integrare la politica scientifica con i risultati della scienza e della tecnica.
Richiesta sacrosanta, se non fosse vista come la panacea di tutti i mali da cui è afflita la società contemporanea: molti scienziati si dicono infatti convinti che solo la scienza e la tecnologia possono risolvere i gravi problemi che abbiamo di fronte in Europa e nel mondo, o che "soltanto con un razionale attacco scientifico possiamo sperare in un futuro migliore", secondo le parole pronunciate di recente da Rita LEVI-MONTALCINI "contro la campagna contro la scienza".
Fatta salva la difesa della razionalità, cioè della ragione umana in quanto capace di conoscenza oggettiva contro ogni forma di pregiudizio e di soggettivismo, occorre riconoscere che proprio il rigore scientifico impone di rivedere le posizioni acquisite di fronte all'evidenza sperimentale.
Si deve quindi ammettere il fallimento del sogno, che il trinomio scienza-economia-politica dovesse necessariamente favorire la soluzione dei problemi, sul piano del progresso civile dell'umanità nel suo complesso.
Ciò impone anche alla scienza un serio esame circa la propria disponibilità alla "utilizzazione dei suoi risultati sul piano etico prima ancora che scientifico e tecnologico", come si è espresso Carlo RUBBIA .
Fino ad oggi ci si è voluti illudere, ad esempio, che l'unità europea potesse formarsi su di un comune mercato: che uniformizza, è vero, società e classi sociali molto diverse, ma non unisce per nulla, perchè non universalizza quei beni relazionali che sono beni comuni, non sono beni privati, sottoponibili ai modi di distribuzione del mercato.
Questa visione "funzionalista"-lasciar fare al mercato, che unisce realtà altrimenti lontane tra loro- ha favorito invece il processo per cui il mercato ha totalizzato l'universalità dei beni coi beni mercantili : ciò che non può essere sottoposto alle regole di mercato non è un bene, non esiste come "bene".
Da qui la separazione tra beni "concreti" e beni "astratti", che sarebbero presenti solo nella nostra mente, cioé di fatto inesistenti, senza realtà: un fumus insieme al quale evapora allora la morale stessa, che si fonda precisamente sulla categoria di un reale bene, da fare o da evitare.
Facendo l'anatomia della vita sociale, si scoprirebbe quindi che il suo cuore non è in quella cosa "astratta", che non finisce mai di essere definita, che sarebbe l'etica, ma in fattori ben più concreti: la pubblica utilità, il selfing interest (l'interesse individuale), il contratto di simmetrica reciprocità tra le parti sociali.
Fallito il progetto lluminista di un sistema di diritto naturale esclusivamente razionale, l'etica viene affatto relegata nella sfera del privato, mentre lo stesso gius-positivismo finisce col derivare il diritto dalla società, dallo Stato.
Fu proprio COMTE il primo ad avere la pretesa di estendere il metodo scientifico a tutte le scienze umane, di cui la più alta era per lui la sociologia o "fisica sociale": lo studio di grandi aggregati al fine di ricavarne leggi per la stessa società.
Egli auspica una nuova religione "positiva" dell'umanità(nella quale però non hanno un senso preciso i diritti personali dell'uomo, il quale è una particella sociale); in tale direzione "religiosa senza Dio" naufraga la dotrina di COMTe, che insiste nel delineare una sua "trinità", composta da:
1. il"Grande Essere", la società (l'Umanità);
2. il "grande feticcio"(la Terra);
3. il "grande mezzo"(lo spazio).
Come è noto, la sociologia nasce come riflessione su quella società, quella storia umana, considerate nella loro cruda realtà, che non sono sorte per un atto razionale né per volontà divina."Alle origini della "sociologia" c'é la riflessione sulla storia del genere umano e il tentativo di definire il concetto della società in contrasto con le idee giusnaturalistiche e contrattualistiche. Quella del COMTE fu una deformazione della originaria impostazione rivoluzionaria(utopistica) e critica del Saint-Simon. Quel concetto fu adottato da Hegel, ed elaborato da lui, come è noto, nella Filosofia del diritto. E' noto anche come Marx, nella prima fase delle sue riflessioni critiche sulla filosofia politica di Hegel, prendesse le mosse proprio dalla seconda sezione della Filosofia del diritto, quella sulla società, e dal "passaggio" da questa alla terza "sezione": lo Stato" .
Da qui lo scadimento dell'etica in "eticità", e quindi della scomparsa della morale personale come "inutile", di cui si è parlato. Tale incapacità della cultura contemporanea di fornire un adeguato fondamento all'etica ed infine anche alla politica, è stata esplicitamente ammessa dallo stesso maggior rappresentante della sociologia contemporanea, Max WEBER(1864-1920):"Non può essere nostra intenzione-scrive nell'Etica protestante e lo spirito del Capitalismo-di sostituire ad una interpretazione causale della civiltà e della storia, astrattamente materialistica, un'altra spiritualistica, astratta del pari. Tutt'e due sono ugualmente possibili, ma con tutt'e due si serve ugualmente poco alla verità storica, se pretendono di essere non una preparazione ma una conclusione dell'indagine".
L'astrattezza consiste appunto nel solito dualismo tra rex extensa(materiale) e rex cogitans(razionale), da cui neanche Weber sa emanciparsi in una superiore visione unitaria; astrattezza è dar corpo a quella distinzione-indispensabile per poter pensare- tra piano ontologico(reale) e piano intellettivo(ideale), con la pretesa che l'uno debba escludere o "superare" l'altro per poter essere.
Tali passaggi di pensiero "astratto", servono tuttavia a spiegare la fortuna del positivismo giuridico nella filosofia del diritto di '800 e '900, e le sue successive ricadute nell'ambito della morale e del diritto positivo degli Stati.
La morale per Comte, sebbene in funzione del "grande essere" sociale, era ancora normativa: anche se la conoscenza del valore, del dovere, è "inutile"(in reazione a Kant) se non "impossibile".
Il passo successivo è presto fatto: non è più il contenuto buono(=iustum) che decide cosa la legge deve comandare(= iussum), ma è la forma della legge che decide della bontà dell'atto.
Da cui deriva, che la legge può comandare qualsiasi cosa, che diventa giusto perché comandato dal legittimo potere, come già diceva Hobbes: "auctoritas non veritas facit legem"(l'autorità e non la verità fa la legge).
Da cui anche:"nulla poena sine lege" e "nullo crimen sine lege": la moralità viene annullata dalla positività del diritto; assurdo al quale l'opinione comune spesso si ribella deviando la propria indignazione in forme abnormi, come quella di farsi giustizia da sè o di "vendicare" il crimine con una pena "pari", come quella di morte.
Il giuspositivismo si può quindi riassumere in alcuni punti:
1. non esiste altro diritto che il positivo;
2. nel diritto si deve seguire il metodo "scientifico": non il dover essere, ma la realtà effettuale;
3. viene quindi tralasciata la corrispondenza tra diritto "positivo" e diritto "ideale";
4. viene riaffermato il dovere assoluto di obbedire alla legge, per la sicurezza dell'ordine sociale e la certezza del diritto (=imperativismo).
Negli ultimi anni ha avuto largo corso il giuspositivismo critico di Hans KELSEN(scomparso vent'anni fa), che propone un nuovo tipo di coazione: il diritto vien visto come complesso di norme regolanti l'uso della forza coattiva, mentre la norma non è più comando ma valutazione, giudizio ipotetico.
Lo Stato viene quindi visto come strumento per la realizzazione dei fini dell'individuo.
L'impostazione di Kelsen risente senz'altro dell'influsso del positivismo logico, corrente di pensiero che ha acquisito una larga influenza nell'ambito non solo del diritto ma dell'etica del nostro tempo.
Nasce nel 1924 dal "Circolo di Vienna", passa in America a causa delle persecuzioni naziste, e viene naturalizzato nel 1938 a Chicago con la pubblicazione della International Encyclopedia of United Sciences.
I concetti del positivismo logico particolarmente interessanti per l'etica, derivano dall'affermazione che le verità sono solo di due tipi:
1. logiche, derivanti cioé dalla corrispondenza tra signum e designata
2. ed empiriche, rilevate in base ai fatti sperimentati
Lo scopo che esso si proponeva era la conciliazione tra empirismo e razionalismo logico; ed il contributo apportato ad un effettivo progresso della cultura contemporanea consiste nella validità di due indicazioni: l'importanza della problematica logico-scientifica per la filosofia e l'essenzialità del linguaggio.
Ma i caratteri assunti dal positivismo logico nel suo avanzamento, radicalizzando tali punti di vista, si sono orientati dall'attenzione alla predilezione per gli atteggiamenti ed i metodi della scienza; della quale affascinano non tanto i risultati, i contenuti, ma il modo in cui vengono formulati, il linguaggio. Da qui il dominio della semantica, quale si manifesta nella matematica.
Questa insistenza esclusiva sulla validità della scienza, diventa una polemica molto critica contro la filosofia, che indulgerebbe a interpretazioni "mistiche" dell'esperienza umana, metafisiche o teologiche, e che avrebbe la pretesa di costituirsi come "superscienza" o semplicemente come scienza.
Secondo l'impostazione della filosofia analitica, la ragione, in etica e bioetica, avrebbe solo la funzione di analizzare la coerenza tra principi generali e norme particolari.
L'attacco del positivismo logico alle posizioni filosofiche, nel campo per esempio dell'etica, viene formulato però in maniera non scientifica: esso infatti viene portato avanti non dimostrando l'erroneità delle tesi ma chiarendone il non-senso, asserendo che esse portano a "pseudo-probemi".
Il cosiddetto emotivismo ritiene che il linguaggio morale sia espressione di "emozioni soggettive", di sentimenti, di"credenze", di atteggiamenti" di chi parla, e che i giudizi morali ed i termini etici siano un "non senso"(sostituibili nel testo scritto con un punto esclamativo o nel linguaggio orale con una tonalità particolare della voce).Le norme dunque si fonderebbero sulle emozioni del soggetto.
Presunta l'impossibilità di ritrovare una verità morale e quindi delle norme universali, anche tale relativismo etico di tipo soggettivistico preme perciò per mettere tra parentesi l'etica dei valori; e per orientare invece l'etica ed anche la bioetica contemporanee a svilupparsi maggiormente nel settore dell'etica pubblica, come suggerisce il modello utilitaristico contrattualista: nella prospettiva cioé di trovare dei criteri per valutare i poteri pubblici o i principi contrattuali.
Si va quindi verso l'elaborazione di etiche simmetriche(come ha notato John ROLSE nel suo:Una teoria della giustizia ), vale a dire della "uguaglianza di proporzionalità", secondo il criterio della giustizia commutativa dei due tipi:
1.liberale: ricevo tanto quanto dò
2. marxista: ricevo tanto quanto ho bisogno.
Tali etiche si collocano comunque al di fuori di quella che E. LEVINAS ha chiamato l'etica di tipo gratutito, a-simmetrico o "del dono": l'essere responsabili "verso il volto" dell'altro, anche se l'altro non lo è verso di me, "ri-volgersi" a lui.
Idea questa, che si sposa invece con il criterio della sussidiarietà, che è uno dei capisaldi della concezione personalista: "tanto maggiore dev'essere il sussidio quanto maggiore è l'incapacità del soggetto di provvedere da solo"; il che significa anche però, che non si deve, non è giusto "surrogare" l'attività di singoli o di entità sociali capaci di provvedere, con una loro specifica funzione, al bene individuale o sociale.
Terminato questo esame, completo per quanto assai sommario, delle posizioni etiche attuali nell'ambito del dibattito bietico in corso, non resta che raffrontare questi vari modeilli ed impostazioni con le questioni bioetiche che si presentano nell'evidenza della pratica medica e scientifica: lavoro che ciascuno è chiamato a fare nel suo ambito, e che insieme abbiamo cercato di fare continuamente, anche se molti esempi non sono riportati nell'ambito di questo Corso.
AIDS: ALCUNI PROBLEMI ETICI E GUIRIDICI
Una presentazione delle principali questioni etiche relative alla diffusione dell'AIDS, può essere semplificata da uno schema che prenda in considerazione i seguenti temi:
I. Principi etici di riferimento
II. Aspetti etici e sociali: diffusione e prevenzione
III. Scelte di politica sanitaria: informazione e ricerca
In seguito potrà essere opportuno evidenziare lo specifico contributo che in questo ambito può fornire una competenza specialistica di tipo informatico-documentaristico.
I. Principi etici di riferimento
I.1. Presentazione dei valori chiamati in causa
I.2 Elenco dei diversi criteri etici di riferimento
I.1. I valori chiamati in causa dalla sperimentazione clinico-farmacologica sull'uomo sono:
I.1.1. Livello di eticità della ricerca scientifica: ottemperanza delle norme comunemente osservate dalla comunità scientifica(originalità, innovatività, cognizione della letteratura internazionale, pubblicazione corretta dei risultati, etc.); rispetto della deontologia dello scienziato; giustificazione a livello sociale per un'equa ripartizione delle risorse.
I.1.2. Valori della scienza (conoscenza come fine primario, libertà di ricerca, universalità e comunicazione dei risultati, verificabilità e falsificabilità, etc.) e della medicina (conoscenza applicata ad un fine specifico, bene del paziente come fine primario, competenza e veridicità, etc.).
I.1.3. Valore della persona umana, che costituisce il fondamento ed il fine dell'etica e della ricerca, come realtà bio-psichica titolare del diritto alla libertà(di comportamento, di informazione corretta, di consenso su screening di massa o sperimentazione, di non-discriminazione, etc.) e quindi del dovere alla responsabilità(personale, familiare, sociale) circa la diffusione della malattia e la ricerca delle cure.
I.1.4. Valori della comunità sociale: della tutela della salute pubblica, dell'educazione civile, dell'informazione sanitaria, del sostegno alla ricerca, etc.
I.2. Le diverse posizioni circa i criteri etici cui far riferimento, per operare delle scelte concrete in caso di conflitto tra valori diversi(es.: libertà e salute pubblica), nel dibattito bioetico contemporaneo si sono andate coagulando intorno ad alcuni modelli etici distinti, a secondo delle diverse teorie etiche da cui discendono; esse si differenziano sostanzialmente per l'essere etiche cognitiviste(oggettive) o meno: normative(naturalistiche e religiose) o descrittive(sociologismo) ed analitiche(emotivismo), teleologiche(edonismo, utilitarismo) o deontologiche(anche prima facie).
Tali modelli etici sono:
I.2.1. Modello liberal-radicale: pone come valore prevalente la libertà(dello scienziato, o del soggetto in caso di screening di categoria, sperimentazione, etc.);
I.2.2. Modello pragmatico-utilitarista: valore prevalente: il computo rischio-beneficio, a livello sia individuale che sociale;
I.2.3. Modello sociobiologico: valore prevalente: il progresso della specie umana e la protezione dell'ecosistema;
I.2.4. Modello personalista: valore prevalente: il rispetto assoluto dell'integrità dell'essere umano come unica realtà bio-psichica(persona), e del bene comune come complesso del bene dei singoli.
II. Aspetti etici e sociali:diffusione e prevenzione
II.1. Questioni etiche poste dallo stato di affezione da HIV
II.2. Questioni sociali relative
II.1. Questioni etiche poste dallo stato di affezione da HIV
II.1.1. Segreto professionale: il diritto di un paziente alla riservatezza, può avere la prevalenza se entra in conflitto con il diritto alla verità del suo partner o familiare, e con il rispettivo diritto all'intimità e dovere di assistenza?
II.1.2. Il dovere di assistere in caso di diagnosi di AIDS, pone dei problemi etico-giuridici in caso di determinate attività che comportino un rischio professionale per la salute(medici, infermieri, assistenza ai minori, etc.)?
II.1.3. La terapia si svolge in una duplice direzione: del virus e delle infezioni associate.In caso di stadio avanzato del male, la libertà decisionale del malato può propendere per la sospensione delle cure delle malattie associate?
II.1.4. Il rapporto tra sieropositività ed interruzione volontaria di gravidanza è automaticamente scontato e non necessita di considerazioni etiche e sociali?
II. I.5. Il consenso informato è sempre necessario in caso di screeneng, per esempio di categorie a rischio(carcerati, drogati, miliutari etc.)?
II.I.6. Sperimentazione di nuovi farmaci
II.2. Questioni sociali relative
II.2.1. Il dovere di assistere pone dei problemi etico-giuridici nel caso di attività che comportino un rischio professionale (medici, infermieri, assistenza a minori)? Quali?
II.2.3. La sieropositività da HIV può essere considerata come invalidità civile con il conseguente diritto di tutela sociale?
RESPONSABILITA' ETICHE DEL MEDICO IN DIAGNOSI E TERAPIA
Le responsabilità del medico dal punto di vista deontologico sono codificate ed i concetti relativi - di perizia, diligenza etc. - sono noti.
La novità che si sono presentate di recente riguardano piuttosto, a nostro avviso, l'ambito delle responsabilità di tipo etico.
La recente sentenza di quel Pretore di Genova che, per la morte del paziente durante l'intervento di appendicectomia, ha condannato oltre agli anestesisti anche i chirurghi, è certo opinabile, ma di fatto si è basata su di un obbligo di tipo etico: l'obbligazione morale cioé di esercitare un controllo e di sostituirsi a chi sta sbagliando(nell'ambito, chiaramente, delle comuni cognizioni professionali).
L'esercizio alla riflessione circa l'eticità di qualsiasi scelta, riguardante l'atto medico, pare diventato quindi non solo opportuno, ma addirittura necessario in molti casi, in cui si tratta non solo di operare una veloce decision-making, ma di essere in grado di difenderla nelle sedi più opportune.
Se, come è noto, "la responsabilità penale è personale", altrettanto deve dirsi della responsabilità morale, che nel caso del medico si esplicita nel farsi carico, non solo del successo dell'intervento o delle cure sul corpo del paziente, ma in qualche misura della tutela della vita e della salute del paziente stesso: anche se ovviamente non è etico caricare il medico di responsabilità che non ha, per cui per esempio è più corretto parlare di "diritto alle cure", che non di "diritto alla salute". Riguardo la responsabilità del medico rispetto alle terapie scelte, anche nel panorama giurisprudenziale è ormai tramontata, come è noto, l'idea, che l'obbligazione del "contratto di cura" sia di risultato, che non piuttosto di mezzi e di comportamenti.
Ciò non esclude naturalmente quella concreta preoccupazione verso il malato o il paziente più che verso l'intervento o la malattia, che si configura come di tipo etico, e che si dimostra non solo "nobile" ma anche utile, a suggerire le scelte più giuste e giustificabili: sia nei casi più comuni di prescrizioni di farmaci e di interventi diagnostici e terapeutici, che in eventualità più rare, cosiddette "di frontiera", proposte dalla ricerca scientifica e farmacologica e dalle tecniche chirurgiche più avanzate.
Se ciò può sembrare ovvio, scendendo all'atto pratico si osserva che la responsabilità del medico si prospetta a volte decisamente di tipo etico; per fare qualche esempio, si possono citare:
a) l'informazione ed il consenso, in particolare in pediatria
b) la diagnosi prenatale e la diagnosi precoce di morte;
a) L'informazione ed il consenso nelle procedure diagnostiche e terapeutiche
L'informazione, che come si sa dovrebbe essere corretta e completa(circa la diagnosi, la terapia, il rischio, la prognosi), non può tuttavia, per rispondere al requisito etico, ridursi ad una semplice enunciazione matematica, da parte del medico, dei vantaggi e degli svantaggi; ma deve essere adatta al singolo paziente, di cui occorre conoscere minimamente quindi, capacità di comprensione, cultura, stato psichico: nei limiti, realisticamente, delle possibilità di tempo e di azione.
Per quel che riguarda il consenso, se per le procedure diagnostiche e terspeutiche non invasive si può presumere quello tacito, accettate come sono dalla gran parte dei malati, per le metodiche invasive, di cui il paziente deve necessariamente essere informato, ciò deve avvenire senza "accanimento informativo" ma in modo da suscitare una consapevole ed espressa accettazione del procedura da usarsi(con l'informare dei rischi statisticamente anche minimi che comporta: tale è il caso, per esempio, della gestante che va informata del rischio fetale pur modesto, di amniocentesi, biopsia coriale, funicolocentesi etc.).
Il criterio etico generale cui attenersi è comunque quello del superiore interesse del malato: compete quindi alla responsabilità dei medici ribadire che, pur nel doveroso rispetto del valore della libertà di consenso, come contemplato dal Codice di deontologia medica(1990, art.40), il valore massimo di cui l'operatore è tenuto a render conto nell'ambito delle sue competenze professionali, come contemplato nel testo Costituzionale, è quello superiore della vita e della salute del suo assistito: per questo motivo è tenuto a sollecitarne l'assenso, fatta salva l'informazione chiara e precisa anche dei rischi, che tra l'altro salvaguarda la responsabilità civile del medico.
La questione scientifica ed etica del consenso informato si presenta più rilevante in pediatria, anche dal punto di vista della responsabilità del medico; alla cui competenza, non sembra eccessivo dover attribuire una specie di child advocacy , cioè il sollecitare decisioni che non sempre sarebbero quelle della famiglia, pur nel sincero riconoscimento della "competenza a decidere" dei genitori, e in alcuni casi dello stesso minore. Ancora più delicato, il caso del consenso informato in neonatologia, concernente "le terapie intensive e sofisticate per neonati in condizioni di alto rischio e persino incompatibili con la sopravvivenza".
Una ponderata riflessione sulle responsabilità civili ed etiche del medico, suggerisce che le decisioni vanno prese in ogni caso insieme ai genitori, evitando gli eccessi opposti, a cui si può essere indotti, a volte, dall'incertezza del successo e dell'esito a distanza: relegare ai soli genitori la decisione circa l'avvio e l'interruzione delle terapie, o al contrario non coinvolgerli affatto nell'angoscia della drammatica scelta.
b) La diagnosi prenatale
Le metodologie della diagnostica prenatale, sempre più avanzate e sempre più accessibili, pongono problemi alla responsabilità etica più che a quella giuridica del medico, ma non per questo meno rilevanti.
Un gruppo di esperti dell'OMS - già vent'anni addietro, mentre proprio nasceva la Bioetica come scienza particolare - dichiarava: "In un mondo che si preoccupa sempre piùdella qualità della vita umana, si deve ritenere come scontato che i figli dovrebbero nascere liberi da ogni malattia genetica". Il diffondersi delle leggi sull'interruzione volontaria di gravidanza ha indubbiamente favorito lo sbocco nell' aborto selettivo: ma la legge non si preoccupa di distinguere tra malformazioni trattabili medicamente o chirurgicamente e quelle che sono a carattere permanente.
La valutazione invece dell'eventuale terapia o chirurgia neonatale o endouterina, spetta al medico professionista; il quale, per correttezza deontologica, è tenuto a fornire ai futuri genitori un quadro completo ed esauriente di informazioni, relative ai rimedi più o meno risolutivi, possibili prima o dopo la nascita. Si evitano così sia inutili drammi psicologici, sia un tipo di prevenzione che di fatto corrisponde ad una indiscriminata selezione, in mancanza di un'adeguata lettura scientifica della situazione concreta.
Ciò è in linea con la tendenza più avanzata della scienza medica, che tende a considerare il feto come paziente, oltre che con l'interesse sociale di tutela della maternità e di prevenzione e cura delle malattie: anche se, al momento, le attuali possibilità terapeutiche in medicina fetale sono inferiori a quelle diagnostiche.
Questa collocazione in un corretto contesto scientifico e di politica socio-sanitaria non eugenistica, fa dello screening genetico prenatale "un importante servizio sociale" che si avvale direttamente della responsabilità scientifica ed etica del medico.
La diagnosi precoce di morte
L'avanzamento delle tecnologie psicomediche consente, come è noto, tramite alcuni esami strumentali(angiografia cerebrale, flussimetria Doppler ad onda continua ed intracranica, la scintigrafia cerebrale, la SPECT) di confermare la diagnosi di morte cerebrale (l'assenza di circolazione cerebrale, cioé l'impossibilità del sangue di raggiungere il parenchima c.) in tempi più brevi di quanto previsto dalla legge, che prevede la persistenza dei noti criteri clinici e strumentali per un lasso di tempo che varia dalle sei alle dodici ore, a seconda dei parametri usati.
In mancanza di nuove disposizioni legislative, compete alla responsabilità etica del medico favorire l'esatta conoscenza e la diffusione di questo innovativo criterio di morte cerebrale rispetto a quello classico di "morte cardiaca", non solo per agevolare la cultura della donazione di organi, ma per essere personalmente preparati ad utilizzare questa formulazione alternativa, ove se ne presenti la necessità.
Ambedue le formulazioni "identificano comunque l'essenza del concetto di morte nella perdita totale ed irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale "; la differenza è "soltanto indicare una nuova modalità di identificare la morte".
La non conoscenza, invece, dell'esatta definizione di morte cerebrale(necrosi asettica degli emisferi cerebrali e del tronco), può comportare al contrario vari elementi di confusione e facilitare il sorgere di pseudo-problemi in ambito etico; dovuti, per esempio, all'utilizzo indifferente di "morte cerebrale", al posto di termini assai diversi come "coma irreversibile"("sindrome apallica"), "morte troncoencefalica(che ha requisiti prognostici ma non diagnostici di morte), o infine "morte corticale"(o "stato vegetativo persistente", non irreversIbile: in cui permangono integri i centri del paleoencefalo, e quindi attive le capacità di regolazione centrale dell'organismo e di espletare in modo integrato le funzioni vitali, compresa la respirazione autonoma).
Problemi particolari, sia di carattere tecnico che etico, possono porsi circa la difficoltà di diagnosi clinica e strumentale di morte in età pediatrica e neonatale, specialmente in conseguenza di un insulto perinatale, e per il neonato pretermine.
La nostra legislazione non prevede criteri supplementari rispetto all'adulto, benché sia noto che nel neonato il substrato anatomo-funzionale è diverso e maggiore la resistenza del parenchima cerebrale. In attesa di sanzioni giuridiche e nuovi criteri normativi più adeguati, va raccomandata alla responsabilità etica del medico la più ampia prudenza nella valutazione dei parametri strumentali attualmente disponibili circa la diagnosi di morte del neonato.