BRUNO SILVESTRINI
La Sperimentazione animale
Testo apparso in: FRONTIERE DELLA VITA, vol. IV, parte III Bioetica, Sezione IV Etica e interventi sul vivente. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1999
Riassunto
La sperimentazione sull'animale è discussa nel contesto delle leggi fondamentali della vita, rappresentate dalla difesa del sé, dalla solidarietà e dalla gradualità. La sua storia ed i suoi contributi al progresso scientifico e tecnologico sono brevemente delineati, con particolare riguardo ai principi etico-giuridici che sono alla base della sua regolamentazione. Gli argomenti pro e contro sono analizzati criticamente, sottolineando il valore delle informazioni ricavabili dalla semplice osservazione dei processi naturali. Il ricorso alla sperimentazione animale sarebbe in parte ridimensionato da una diversa strategia, che avesse come fine primario non la lotta alle malattie con qualunque mezzo, ma lo studio del loro significato biologico e, quindi, la valorizzazione di medicamenti e di altri mezzi già collaudati in natura. La tutela del genoma è discussa in riferimento non solo agli sviluppi della biologia molecolare, ma anche agli interventi che l'uomo effettua da sempre, deviando il corso della vita in funzione delle proprie specifiche necessità. Quando esaminato sotto questa prospettiva biologica, il problema etico della sperimentazione animale sembra trovare soluzioni sostanzialmente simili a quelle proposte, per strade diverse, da alcune correnti del pensiero religioso e filosofico.
Premessa
La sperimentazione è insita nella vita, che se ne avvale per scegliere, tra miliardi di possibili soluzioni, quelle più confacenti al difficile cammino che, in contrasto con il degrado della parte restante dell'universo conosciuto, la conduce verso sistemi sempre più organizzati e complessi. Se ne serve, di conseguenza, anche l'uomo, nella sua incessante ricerca delle condizioni più favorevoli alla propria sopravvivenza ed al proprio sviluppo.
Tra la sperimentazione della parte restante della vita, comunemente denominata natura, e quella dell'uomo, esiste una differenza basilare. La prima conduce la sperimentazione su sé, a proprio rischio e pericolo, e le informazioni così ottenute sono inseparabili dalle loro espressioni tangibili. L'uomo, invece, è riuscito ad isolare l'informazione dal suo supporto tangibile originale ed a trattarla come qualcosa a sé stante. Egli può condurre, di conseguenza, la sperimentazione anche su altri esseri viventi, traendone vantaggio sotto forma di conoscenze utilizzabili anche per fini che vanno ben oltre l'esperimento dal quale sono state ricavate. Ne nascono numerosi problemi, alcuni dei quali saranno esaminati in questo capitolo, utilizzando una chiave interpretativa biologica.
Le due leggi della vita
La vita, nel corso del suo sviluppo, sostenuto dall'incessante sperimentazione di ogni possibile alternativa, s'è attenuta a due leggi fondamentali. Esse riguardano ogni vivente, da quelli costituiti da virus ed organismi unicellulari, fino a quelli multicellulari, che includono l'animale e l'uomo.
La prima di queste leggi è la difesa ad oltranza della propria esistenza, che può arrivare fino alla soppressione di quella altrui. Per semplicità, la chiameremo legge della difesa del sé. Se non la rispetta, la vita si ferma, arretra, declina e quindi si spegne. L'uomo non si sottrae a quest'obbligo elementare, sia per la parte guidata dagli istinti, sia per quella sostenuta dalla cultura, che a sua volta regge il progresso scientifico e tecnologico. La prima parte è scritta nel suo codice genetico ed è trasmessa dall'una all'altra generazione all'atto del concepimento. La seconda parte si tramanda dall'una all'altra persona dopo la nascita, attraverso il linguaggio parlato, la scrittura e l'educazione.
Non è, quindi, sorprendente che l'uomo si sia servito da sempre degli altri viventi per soddisfare le proprie necessità. Li ha cacciati per nutrirsi, quando era affamato. Li ha uccisi per difendersi, quando lo minacciavano. Li ha addomesticati, sottraendoli alla loro condizione originaria, per disporne più facilmente e ricavarne cibo ed altri prodotti utili, come la lana. Li ha utilizzati come manodopera per custodire le greggi, per lavorare i campi e per farsi trasportare, assieme alle merci. Ha selezionato le specie utili e sterminato quelle inutili o nocive impiegando strumenti sempre più potenti, come i fertilizzanti, i pesticidi ed altri veleni capaci di uccidere ogni genere di vivente, dai batteri e dalle muffe fino ai mammiferi selvatici. Ha anche usato gli animali come svago in giochi crudeli, quali combattimenti e corse all'ultimo sangue. Si è impadronito, infine, del codice genetico e l'ha manipolato, giungendo ad incidere profondamente sul meccanismo stesso che regola e sostiene la vita.
I maggiori successi della medicina moderna sono riconducibili a questa legge basilare. Prendiamo, ad esempio, i chemioterapici, gli antibiotici ed i vaccini: che cos'altro sono, se non armi micidiali, usate per combattere ed in qualche caso sterminare altre forme di vita? In questo caso esse sono rappresentate da batteri, funghi e protozoi patogeni, ma per difendere la propria salute l'uomo non esita ad uccidere anche il bestiame e gli animali selvatici. Lo fa se appena sospetta che siano portatori di malattie trasmissibili, come la rabbia e l'encefalopatia spongiforme bovina, volgarmente detta "malattia della mucca pazza". Se non si comportasse così, d'altronde, egli sarebbe nuovamente in balìa della denutrizione e delle malattie che nel passato uccidevano o menomavano milioni di persone. Esse comprendono la poliomielite, la difterite, la tubercolosi, le cosiddette febbri puerperali e tante altre forme morbose che sarebbe troppo lungo anche solo elencare. Perfino la posizione dei vegetariani, che per non uccidere gli animali si nutrono di piante, appare debole, in quanto anche il loro nutrimento è assicurato dallo sterminio degli animali e di altri esseri viventi nocivi alla produzione agricola.
Mors tua vita mea: questa è la prima legge della vita. Ne esiste un'altra, tuttavia, ugualmente fondamentale ed inscindibile dalla prima. Qui di seguito la chiameremo legge della solidarietà. E' grazie ad essa che agli albori della vita due grumi di materia, o di energia se così la vogliamo chiamare, hanno ricavato dalla loro unione la spinta a procedere in senso opposto rispetto al mondo circostante, che andava verso la disgregazione e lo spegnimento. Da quell'unione è nato qualcosa di più complesso di una semplice somma, che ha saputo far tesoro di quanto era fin lì avvenuto, memorizzandolo ed utilizzandolo da un lato per difendere la propria esistenza e, dall'altro, per servirsene come punto di partenza per procedere verso sistemi ancora più organizzati e complessi. Quella prima espressione della vita si è duplicata, per ridurre il rischio di essere schiacciata dal mondo circostante e di andare perduta. L'ha fatto a costo della propria stessa esistenza individuale, perché la duplicazione implica il trasferimento del sé a qualcosa di diverso, rappresentato da entità dotate di una loro propria individualità, diversa da quella del genitore.
La vita ha questa straordinaria peculiarità. Da un lato essa è rappresentata compiutamente in ogni singolo essere vivente, da quelli più elementari, comparsi nelle prime fasi della vita, fino a quelli più complessi e recenti, incluso l'uomo. I primi hanno sfogliato solo le prime pagine del suo progetto, gli altri sono andati un po' oltre. Dall'altro lato, essa si identifica in un progetto globale, sostenuto da una miriade di esseri viventi passati, presenti e futuri che lo trasmettono l'uno all'altro, come fanno gli atleti in una gara di staffetta con il testimone.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il concorso delle due leggi fondamentali della vita, quella della difesa del sé e quella della solidarietà. Le ritroviamo anche nel progresso scientifico e tecnologico. Eppure, se le cose stanno così, perché quest'ultimo viene spesso percepito come una deviazione dall'ordine naturale delle cose? Come se da un lato ci fosse la natura incontaminata e, dall'altro, l'uomo che la viola, commettendo una colpa che viene pesantemente espiata? Questo concetto non è di oggi, ma di sempre. Secondo qualcuno lo ritroviamo nel Giardino terrestre, dal quale l'uomo è cacciato perché ha assaporato il frutto proibito. Riaffiora nella dottrina contemporanea della Chiesa cattolica, ad esempio là dove i sistemi naturali di contraccezione sono contrapposti a quelli ideati dall'uomo. E' espresso nel mito di Prometeo, che ruba il fuoco agli Dei e subisce per questo gesto una crudele punizione. Trova svariate espressioni filosofiche sia nell'antichità sia nell'epoca moderna, nelle correnti di pensiero naturalistiche che si contrappongono all'illuminismo. Riemerge nei movimenti degli ambientalisti, che anche sulla base di argomentazioni scientifiche si battono per la preservazione della natura, chiamata sistema ecologico, anche a costo di arrestare il progresso.
La terza legge della vita
Il problema del progresso nasce dalla rapidità dei cambiamenti che esso implica. Anche la natura, infatti, cambia continuamente, ma lo fa gradualmente. Per esempio, i viventi hanno impiegato milioni di anni per dotarsi di apparati, quali l'occhio, l'udito, i tensocettori ed i nocicettori interni, che consentono di percepire qualcuno dei tanti segnali provenienti dal loro interno e dall'esterno, oppure per passare dall'acqua alla terraferma, per librarsi nell'aria e per perfezionare ciascuna di queste capacità. Tanto più questi cambiamenti sono drastici, tanto più l'adattamento richiede tempo. Ne troviamo un chiaro esempio nel passaggio dagli organismi monocellulari a quelli multicellulari. I primi, che non hanno problemi di convivenza, crescono rapidamente, duplicando ogni pochi minuti. I secondi, costituiti da cellule, tessuti ed apparati diversi, che per convivere devono adattarsi gli uni agli altri, hanno ridotto la velocità della duplicazione cellulare a 12-24 ore e più. Senza questo rallentamento, il suddetto passaggio non sarebbe stato possibile.
Ne abbiamo la controprova nelle infezioni, che all'occhio del biologo allenato a guardare le cose al di là della prospettiva dell'uomo, appaiono come un classico esempio di tentativo di convivenza tra sistemi biologici diversi, rappresentati il primo dall'agente infettivo ed il secondo dall'organismo infettato. Se l'infezione si propaga rapidamente, allora l'adattamento reciproco è impossibile, perché l'uno dei due prevale sull'altro, eliminandolo o uccidendolo. Se l'infezione si sviluppa lentamente, allora tra l'agente infettivo e l'organismo infettato si instaura una tolleranza reciproca, che consente la sopravvivenza ad entrambi. Quest'ultimo è il caso delle infezioni lente o da eucarioti, che fisiologicamente duplicano con un ritmo di 12-24 ore o più, e da quei batteri, come quelli responsabili della tubercolosi e della sifilide, che hanno imparato a crescere lentamente. Ci scusiamo con il lettore per il ricorso a termini tecnici, ma abbiamo ritenuto utile farlo per dare forza ad un concetto basilare.
L'uomo ha seguito questo medesimo percorso evolutivo, ma poi se ne è discostato per imboccare quello, incomparabilmente più rapido, consentito dal progresso scientifico e tecnologico. Ha imparato a proteggersi dal freddo e dalle intemperie non con adattamenti dell'organismo, che richiedono milioni di anni, ma col fuoco, con gli indumenti e con le abitazioni che ha realizzato rapidamente. Si è servito, per conservare ed elaborare le sue esperienze non del sistema nervoso, che nell'evoluzione si è espanso lentamente, ma di substrati artificiali estranei al suo corpo, quali la carta ed altri mezzi sempre più potenti, sviluppati nel corso di poche generazioni. Una volta accumulate le conoscenze e la tecnologia necessaria, ha realizzato altri cambiamenti, gli stessi per i quali la natura aveva impiegato milioni di anni, nel giro di pochi decenni. Ne sono derivate conseguenze inaspettate, nei confronti delle quali il processo di adattamento è risultato sempre più difficile.
Consideriamo, ad esempio, i successi nella lotta contro le malattie infettive. Milioni di vite umane sono state salvate, ma contemporaneamente si è favorito lo sviluppo demografico, alimentando nuovi bisogni, in termini di cibo, di educazione, di organizzazione sociale e di assistenza sanitaria, assai prima che essi potessero essere soddisfatti. Gli strumenti per la conservazione, l'elaborazione e la diffusione delle informazioni sono diventati sempre più potenti, ma paradossalmente l'uomo rischia di esserne non arricchito, ma impoverito da tutte queste opportunità di conoscenza, che per la loro stessa sovrabbondanza finiscono per travolgerlo.
Forse ci siamo troppo dilungati sulle tre leggi della vita, ma esse forniscono il quadro generale di riferimento, entro il quale la sperimentazione animale si colloca e sarà qui discussa.
Definizioni e generalità
Nella parte introduttiva si è fornita, implicitamente, una definizione di ciò che si intende per sperimentazione. Qui di seguito la preciseremo meglio, esaminandone, inoltre, alcuni aspetti di ordine generale.
Nell'ambito scientifico si definisce sperimentazione "una prova effettuata per comprovare un'ipotesi, per studiare le caratteristiche intrinseche di qualche cosa, per accertare le possibilità applicative di una scoperta teorica e per verificarne la bontà e la sicurezza ". Si tratta, quindi, di un particolare momento del processo conoscitivo, che si distingue da altri per l'incertezza del risultato e perché comporta un intervento diretto dello sperimentatore su ciò che costituisce l'oggetto dell'indagine. Questo intervento è molto variabile, potendo oscillare dalla misurazione di un particolare parametro fino alla riproduzione in laboratorio di un fenomeno naturale. Qualunque sia la sua entità, esso si traduce sempre in un cambiamento, che può arrivare fino al sacrificio di un essere vivente. In assenza di queste due connotazioni, rappresentate dall'incertezza del risultato e dal cambiamento richiesto per ottenerlo, si parla di semplice osservazione dei fatti. Essa è rappresentata, nella sua forma più tipica, dalla registrazione di un fatto pregresso ed è un momento conoscitivo ugualmente importante, ma diverso.
Qualcuno include nella sperimentazione anche altri impieghi dell'animale, come quelli effettuati per fini didattici. In questo capitolo, invece, ci si atterrà strettamente alla suddetta definizione.
In alcuni casi la sperimentazione si traduce, oltre che in nuove informazioni di interesse generale, anche in un vantaggio specifico a favore del soggetto sul quale è condotta. Questo avviene, ad esempio, quando un malato, rappresentato da una persona o anche da un animale, è trattato con un medicinale la cui attività curativa è ormai acquisita, ma deve essere ulteriormente precisata. In queste circostanze, si parla di "sperimentazione terapeutica" o di "terapia sperimentale".
Contrariamente a quanto molti ritengono, nella maggior parte dei casi la sperimentazione non è effettuata su viventi, ma su materiale inerte, rappresentato da fenomeni fisici e chimici, da macchinari e da molecole di varia complessità, dai sali inorganici fino agli enzimi ed al DNA (acido desossiribonucleico). Questo tipo di sperimentazione solleva ugualmente dei quesiti etici di grande rilevanza, ma essi riguardano non tanto i diritti e la tutela del materiale sperimentale, quanto piuttosto le finalità perseguite e l'utilizzazione dei risultati. Un esempio illustrativo è quello dell'iprite, la cui sperimentazione era stata inizialmente proibita in quanto volta ad impieghi nel campo delle armi chimico-biologiche, mentre in seguito si è rivelata determinante per il trattamento dei tumori. L'esigenza di tutelare il materiale sperimentale, anche quando esso non sia dotato di vita propria, si è posta con forza col genoma. L'argomento sarà brevemente trattato in un paragrafo a sé.
I viventi utilizzati nella sperimentazione includono virus, batteri, protozoi ed altri eucarioti monocellulari, organismi multicellulari di crescente complessità, dal moscerino ai mammiferi, fino ad arrivare all'uomo. Qui il problema della tutela dell'oggetto della sperimentazione emerge con forza, perché tutti i viventi, dal più elementare al più evoluto, sono portatori del "progetto della vita", come l'ha denominato Dulbecco (1989). Alcuni ne hanno realizzato, o sfogliato, solo le prime pagine, altri sono andati oltre, ma tutti ne sono ugualmente partecipi. Sotto questo profilo meritano, pertanto, pari rispetto.
Una parte consistente della discussione etica, tuttavia, verte sulla sperimentazione condotta su animali, con particolare riguardo a quelli dotati di un sistema nervoso centrale ben sviluppato, che consente un pensiero organizzato e la percezione cosciente della sofferenza, sia fisica sia mentale, oltre che del piacere (D'Agostino, 1996). A differenza di quanto avviene in natura, durante la sperimentazione essi sono inermi di fronte all'uomo, che può disporre del loro destino e sottoporli a qualunque manovra, anche cruenta. La loro posizione sembrerebbe abbastanza simile, sotto questo profilo, a quella del bambino, del malato mentale e di altri individui menomati, sennonché tra loro esiste una differenza sostanziale. Gli umani sono tutelati da appartenenti alla medesima specie, che avvertono ciò come un obbligo radicato nella religione, nella morale laica e nella giurisprudenza. Inoltre, chi assiste il debole sa di compiere un atto di solidarietà, del quale un giorno egli stesso potrebbe avere bisogno: indirettamente, pertanto, protegge anche se stesso (Silvestrini, 1997). La tutela dei non umani, al contrario, è affidata ad una specie diversa, nella quale questo principio ha stentato a lungo ad affermarsi e tuttora non è ben precisato.
La sperimentazione sull'animale, di conseguenza, è un tema pregnante anche sul piano etico e merita una trattazione a sé, distinta da quella della sperimentazione sull'uomo. Essa costituisce il tema centrale di questo capitolo, che ne analizza diversi aspetti. E' stata, invece, trascurata la parte deontologica riguardante le cosiddette "norme della buona pratica di laboratorio". In accordo con la tradizione anglosassone, si ritiene, infatti, che il loro rispetto vada semplicemente ricondotto alla preparazione professionale di base del ricercatore.
Cenni storici e sviluppi della normativa
Sebbene sia una pratica antica, la sperimentazione sull'animale si è affermata e si è diffusa come uno degli strumenti basilari del progresso medico, oltre che scientifico in genere, solo nell'epoca moderna. William Harvey (1578-1657) se ne è servito per studiare e descrivere la circolazione sanguigna, demolendo l'errata spiegazione che ne aveva in precedenza fornito Galeno. Francesco Magendie (1783-1855) l'ha impiegata per esaminare gli effetti biologici di molti nuovi composti, Claude Bernard (1813-1878) per studiare le funzioni del fegato, del pancreas e dei nervi vasomotori, nonché gli effetti del curaro e di alcuni anestetici. La sperimentazione sull'animale è stata determinante anche per la scoperta del salvarsan, il primo chemioterapico sicuramente efficace, ad opera di Paul Ehrlich (1854-1915). Questo scienziato se ne è servito, inoltre, per raccogliere ulteriori informazioni sul sistema immunitario. In seguito questa procedura si è estesa a tal punto, che sarebbe materialmente impossibile anche solo elencarne gli impieghi ed i risultati più significativi.
Eppure, nonostante la sua diffusione e la sua crescente importanza, le sue implicazioni etiche sono state inizialmente poco dibattute. Francesco Bacone (1561-1626) si limita a giustificarne e preconizzarne l'impiego in nome della tesi che la scienza opera in vista di un fine primario, preminente su tutti gli altri, rappresentato dal bene dell'uomo. Immanuel Kant (1724-1804) ritiene che l'uomo sia l'unico essere vivente cui può essere riconosciuta una dignità morale. Il problema della tutela dell'animale, d'altronde, è scarsamente avvertito anche nelle religioni monoteistiche, nelle quali prevale la visione di un ordine gerarchico dell'universo, che vede all'apice la divinità e, subito sotto, l'uomo, cui è assegnato il dominio della Terra. Nella Bibbia, nei Vangeli, perfino nel nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), non c'è alcuna menzione specifica dei diritti dell'animale. Nel X Comandamento quest'ultimo è considerato solo come proprietà dell'uomo. Ci si affida, di conseguenza, alle norme generali che guidano il comportamento dell'uomo.
I diritti dell'animale vengono rivendicati con forza solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso, soprattutto per merito di movimenti a carattere popolare. Nel 1876 il Governo presieduto da Disraeli emana in Gran Bretagna, sotto la spinta della lega fondata da Frances Power Cobbe, il Cruelty to Animals Act (1876). In seguito diversi paesi adottano norme analoghe, che prevedono una pena per gli atti di crudeltà sull'animale. Un esempio di provvedimento particolareggiato è l'Animal Wellfare Act (1970), che negli Stati Uniti d'America stabilisce con precisione le norme da rispettare per la stabulazione, il trasporto ed il maneggio di cavie, conigli, gatti, cani e, in genere, di tutti gli animali in cattività, inclusi quelli destinati alla sperimentazione.
Sull'argomento esistono numerose rassegne (Schiller, 1967; French, 1978), oltre a ben due documenti del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB, 1992 e 1998) e ad uno del Comitato Etico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR, 1992). Non entreremo, quindi, nei dettagli, anche perché la legislazione e la normativa sono in continua evoluzione. In senso generale, va rilevato che la debolezza dei principi teorici posti a tutela dei diritti dell'animale è ampiamente compensata dalla sua effettiva tutela, quantomeno a livello della sperimentazione. Le norme e le leggi esistenti al riguardo, infatti, sono diventate sempre più stringenti e dettagliate. Il ricercatore che intenda condurre un esperimento è soggetto ad una lunga serie di obblighi e controlli esterni, che riguardano le condizioni di stabulazione, le premesse scientifiche che giustificano la prova, l'importanza dei risultati previsti, l'assenza di procedure alternative, le misure adottate per evitare disagi e sofferenze ed altri aspetti ancora. Ne deriva un impedimento obiettivo a quella consistente parte della ricerca scientifica che si regge tuttora su questa pratica.
Per inciso, la situazione dell'uomo è diversa. I suoi diritti fondamentali non sono più solo genericamenteaffidati alla tradizione religiosa, filosofica e giuridica, ma sono stati solennemente ribaditi in documenti che impegnano formalmente l'intera umanità. Basta citare la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo (ONU, 1948) e, nell'ambito della Comunità Europea, la recente Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e le Libertà Fondamentali (1997). Per quanto attiene più specificamente alla sperimentazione, un documento fondamentale è il Codice di Norimberga, formulato dopo la sentenza emessa nel 1947, al termine del processo contro i medici nazisti responsabili di esperimenti condotti su donne, bambini e maschi adulti. Esso stabilisce che nessuna sperimentazione sull'uomo possa essere condotta senza il consenso di chi vi si sottopone. Questo principio basilare è stato poi ripreso nel documento noto come Dichiarazione di Helsinki (1964), preparato in occasione della XVIII Assemblea Medica Mondiale, ma con un'importante aggiunta. Mentre il Codice di Norimberga demandava l'ottenimento del consenso alla responsabilità dello sperimentatore, qui si avverte l'esigenza di un controllo indipendente, affidata ad un organismo esterno. Questo principio è stato ribadito in occasione delle Assemblee Mediche Mondiali di Tokyo (1975), di Venezia (1983) e di Hong Kong (1989), oltre che in altre manifestazioni pubbliche. E' così diventato una sorta di codice deontologico per il ricercatore, oltre che un punto costante di riferimento per le leggi e le norme promulgate a tutela delle persone sottoposte a sperimentazione (CNB, 1992; Bompiani, 1996). In sintesi, il controllo esterno è demandato ad organismi pubblici, come l'FDA ( Food and Drug Administration) negli Stati Uniti d'America, ed ai Comitati etici, centrali e periferici, che li hanno affiancati con un ruolo sempre più incisivo.
Per contro, sul piano pratico rimane un'ampia fascia di sperimentazioni che sono lasciate alla discrezionalità del medico. La medicina, è tuttora un'arte in larga misura empirica, che si avvale di interventi e mezzi curativi, sia farmacologici sia chirurgici, difficilmente riconducibili a schemi prefissati, garantiti da solide conoscenze scientifiche. Procede, di conseguenza, per tentativi ed aggiustamenti progressivi. Li possiamo definire terapeutici, ma rimangono pur sempre una sperimentazione, che viene effettuata su pazienti privi della possibilità o capacità di dare un assenso informato, oltre che di quelle garanzie esterne che, come abbiamo visto, tutelano invece la sperimentazione sull'animale e la quota della sperimentazione sull'uomo effettuata in un ambito più strettamente scientifico.
I pro ed i contro
I sostenitori hanno buon gioco nel rilevare che la sperimentazione animale è stata determinante per gli sviluppi moderni della ricerca e, quindi, della medicina. Ha consentito di raccogliere informazioni preziose sul funzionamento dei principali organi e di trasformarle in applicazioni pratiche, che si sono spesso rivelate utili sia all'uomo, sia agli animali domestici, sia alla tutela dell'ambiente. Ha permesso di riprodurre in laboratorio molte malattie, come le infezioni, le avitaminosi, l'epilessia, l'ipertensione, l'arteriosclerosi e l'artrite reumatoide, il cui studio sul campo sarebbe stato incomparabilmente più lungo e difficile. Ha reso in questo modo possibile il setacciamento sistematico di milioni di composti naturali e di sintesi, diversi dei quali si sono rivelati attivi ed hanno trovato utili applicazioni pratiche, in medicina ed altrove. Ha offerto la possibilità di verificare l'efficacia e la sicurezza dei medicinali e di altri ritrovati in maniera più sistematica e, sotto certi aspetti, più approfondita di come avveniva in precedenza, quando queste prove erano condotte sull'uomo, spesso rappresentato da individui socialmente deboli, come i prigionieri e gli indigenti. Tutto questo implica un certo grado di danno e sofferenza per l'animale, che è spesso inevitabile in quanto rappresenta il parametro sul quale si concentra la valutazione. Questo risvolto negativo è controbilanciato da benefici concreti, a vantaggio non solo dell'uomo, ma anche, come abbiamo appena ricordato, dell'animale. D'altronde, la sperimentazione sull'animale è tassativamente imposta dalle autorità sanitarie per l'approvazione della maggior parte dei nuovi medicinali, alcuni dei quali sono essenziali per la stessa sopravvivenza: basta pensare ai vaccini ed agli antibiotici. Ci sono alcune eccezioni, delle quali parleremo in seguito, ma riguardano solo casi particolari. Proibire la sperimentazione sull'animale, pertanto, significherebbe fermare il progresso terapeutico, privandoci della speranza di sconfiggere le malattie tuttora incurabili, come molte forme di cancro.
Gli oppositori, per contro, sottolineano quanto sia difficile trasferire all'uomo i risultati ottenuti su esseri viventi profondamente diversi sul piano anatomico, fisiologico e, conseguentemente, farmacologico. Lo dimostra il fatto che gli effetti negativi dei medicinali spesso emergono non durante la sperimentazione animale, ma in seguito, nel corso dell'impiego medico. Nonostante tutti gli accorgimenti adottati, un margine d'incertezza permane, tant'è vero che tutti concordano nel ritenere cruciali non le prove di attività e sicurezza effettuate sull'animale, bensì la sperimentazione sull'uomo. Ancora, i modelli animali sono spesso fuorvianti, perché riproducono i sintomi e le manifestazioni esteriori delle malattie, non le loro cause. Di conseguenza, hanno favorito l'avvento di medicinali sintomatici, anziché curativi. Tali sono ad esempio quelli usati contro l'ipertensione, la schizofrenia e la depressione. Questo argomento sarà ripreso più avanti.
E' un dibattito acceso, tra posizioni apparentemente inconciliabili, ma che con un po' di buona volontà potrebbero trovare un punto d'incontro. Da un lato la sperimentazione animale appare ancora indispensabile per il progresso delle scienze, a vantaggio non solo dell'uomo, ma anche degli stessi animali. Dall'altro lato può essere ulteriormente ridotta sfruttando meglio le sue alternative.
Le alternative
Pur senza eliminarne la necessità, le conoscenze e le tecnologie attualmente disponibili offrono numerose alternative alla sperimentazione animale e ne riducono il peso che coloro che vi vengono assoggetti. Le prove in vitro, condotte su cellule, tessuti ed estratti biologici isolati, forniscono informazioni spesso altrettanto preziose. La biologia molecolare ha fornito, assieme ai nuovi strumenti di indagine che ne hanno accompagnato gli sviluppi, interessanti prospettive allo studio dettagliato e non necessariamente invasivo dei processi fisiologici e patologici. I modelli ed i sistemi computerizzati, che simulano con un notevole grado di approssimazione il funzionamento dell'organismo, forniscono un aiuto sempre più importante. Sono disponibili molti strumenti, gli stessi largamente usati nella diagnostica clinica, che permettono di spingere lo sguardo dentro l'organismo, evitandogli qualunque danno. Per fare qualche esempio, lo studio dei possibili effetti cancerogeni dei farmaci e delle loro trasformazioni metaboliche, che un tempo comportava necessariamente il ricorso all'animale, oggi può essere in parte effettuato su cellule, tessuti e sistemi enzimatici isolati. Questo spiega perché il dibattito tra sostenitori ed oppositori della sperimentazione animale, che un tempo era particolarmente acceso, si sta smorzando. Esso oggi verte non tanto sulla reale utilità dei metodi alternativi, quanto piuttosto sulla loro portata, che alcuni probabilmente sopravvalutano, mentre altri la sottovalutano.
Il problema, tuttavia, non si esaurisce in questi termini. Per spiegarlo occorre ricordare che la sperimentazione sull'animale si è finora dimostrata utile soprattutto in tre settori della ricerca biomedica:
a) La ricerca di base, che studia i processi biologici, incluse le malattie, per chiarirne i meccanismi;
b) La ricerca applicata, che traduce le conoscenze in applicazioni pratiche;
c) Il collaudo tossicologico dei medicamenti e di altri ritrovati, che è effettuato prima della loro sperimentazione sull'uomo del loro impiego clinico.
La ricerca di base non richiede sempre, almeno nelle sue prime fasi, il ricorso alla sperimentazione sull'animale. Molte delle grandi scoperte, quelle che hanno più profondamente inciso sull'esistenza umana, nascono dall'osservazione attenta ed acuta di processi che si manifestano spontaneamente in natura, senza alcun intervento dell'uomo. Citeremo qualche esempio, scelto tra i tanti possibili. James Lind (1716-1794), un medico della marina britannica, rileva una correlazione tra lo scorbuto, una malattia allora gravissima, molto comune tra i marinai, e la mancanza di cibo fresco. Ne deduce che quest'ultimo contenga dei principi essenziali, che col tempo si deteriorano. Per provare quest'ipotesi, ricorre ad una sperimentazione, che conduce direttamente sul malato. Lo fa senza chiedere né consenso né autorizzazione, perché allora non se ne parlava ancora, eppure la sua decisione appare corretta in base a tre ordini di considerazioni: primo, la sperimentazione era giustificata da un'argomentazione, o ipotesi, plausibile, vale a dire che esistesse un nesso causale tra mancanza di cibo fresco e malattia; secondo, esisteva uno stato di necessità, rappresentato da una malattia che, in assenza di un intervento medico, poteva avere esito letale; terzo, come vedremo meglio tra poco, Lind sperimentò dei trattamenti che non comportavano rischi apprezzabili, in quanto erano costituiti da alimenti già usati correntemente. Inoltre, i pazienti non erano sottratti ad altre cure, dato che allora non ne esistevano. In breve, egli suddivide alcuni marinai sofferenti di scorbuto in gruppi omogenei, sui quali sperimenta diversi alimenti freschi. Fortunatamente a quell'epoca esistevano già degli scambi commerciali tra la Sicilia e la Gran Bretagna, così che egli può includere tra i trattamenti il succo d'agrumi, che rivela una spiccata azione terapeutica.
Questa è stata, probabilmente, la prima grande scoperta medica dell'epoca moderna. Non solo si trattò di un medicamento di sicura efficacia, ma quest'ultima fu documentata con uno studio controllato, effettuato paragonando tra loro trattamenti diversi, con modalità che conservano intatta la loro validità. Inoltre, il succo d'agrumi ebbe una sorta di registrazione governativa, che ne consentì la distribuzione in tutte le navi della Marina Britannica. La sperimentazione animale fu di grande importanza anche in questo caso, ma solo in seguito, quando fu approntato un modello sperimentale di scorbuto che agevolò l'identificazione del principale componente attivo degli agrumi, rappresentato dalla Vitamina C. La sua scoperta valse nel 1937 ad Albert Szent Gyorgyi il Premio Nobel per la Medicina.
Circa un secolo dopo Lind, Edward Jenner (1749-1823) osserva che i mungitori colpiti da una malattia lieve, ma apparentemente simile al vaiolo, diventano resistenti a quest'ultima malattia, che all'epoca si manifestava in forma epidemica, uccidendo migliaia di persone. Egli ne arguisce che le difese naturali dell'organismo possono essere attivate utilizzando stimoli in sé non pericolosi, ma capaci di simulare la malattia. In altre parole, riscopre il principio ippocratico similia similibus curantur, aprendo in questo modo la strada ai moderni vaccini. Anche lui verifica quest'ipotesi non sull'animale, ma direttamente sull'uomo, con una procedura che, in questo caso, solleva dei pesanti interrogativi di ordine etico. Per dimostrare l'efficacia della vaccinazione, infatti, egli nel 1796 inocula per la prima volta pustole vaiolose ad un giovane precedentemente vaccinato. La malattia non attecchisce, e questo rappresentò un risultato di enorme importanza scientifica e pratica insieme, ma ottenuto esponendo ad un rischio grave il soggetto della sperimentazione. Oggi la prima verifica sarebbe condotta non sull'uomo ma sull'animale.
A partire dal 1803, a Londra fu avviata una campagna di vaccinazione su larga scala, che comportò una drastica riduzione delle morti da vaiolo. In seguito, questa pratica si è progressivamente diffusa finché, nella seconda metà di questo secolo, ha portato alla scomparsa definitiva di questa grave malattia.
Un altro caso interessante è quello della scoperta dell'insulina. Fin dal 1889 era noto che il diabete mellito è dovuto ad un difetto del pancreas, ma nei decenni successivi nessuno era riuscito ad isolare il principio attivo. Frederick G. Banting osserva, al tavolo chirurgico, che l'ostruzione del dotto pancreatico causa una degenerazione della parte esocrina del pancreas che è ricca di enzimi proteolitici. Il lettore deve sapere che questi ultimi, dopo che sono usciti dalle cellule, hanno la capacità di distruggere i composti di natura proteica con i quali vengono a contatto. Per evitare questo fenomeno, cui potevano essere imputati gli insuccessi precedenti, Banting ebbe l'idea di sfruttare quello che aveva osservato al tavolo chirurgico per ottenere una degenerazione della parte esocrina del pancreas e, conseguentemente, la scomparsa degli enzimi proteolitici. Sottopose, quindi, alcuni cani alla legatura del dotto pancreatico e dopo un congruo periodo di tempo raccolse ed esaminò il loro pancreas. In questo modo riuscì per la prima volta ad isolare il fattore la cui mancanza causava il diabete. Per questo successo, ottenuto in mezzo a mille difficoltà, nel 1923 fu insignito del Premio Nobel assieme a J.J.R. Macleod, che lo aveva sostenuto ed aiutato. Per inciso, i due vincitori suddivisero a loro volta il premio l'uno con Charles H. Best e l'altro con J.B. Collip, che li avevano affiancati nelle loro ricerche. Anche in questo caso, la sperimentazione animale fu di importanza critica, ma l'evento cruciale fu l'interpretazione di un fenomeno naturale, che si era manifestato spontaneamente senza l'intervento dell'uomo. Questa stessa combinazione si ritrova in molte altre scoperte moderne, soprattutto nel campo delle vitamine, dei vaccini e degli ormoni.
Chiarendo le cause delle malattie è spesso possibile curarle con medicamenti costituiti da sostanze fisiologiche, quelle la cui carenza produce la malattia, oppure capaci di attivare un meccanismo difensivo dell'organismo. Il primo è il caso delle vitamine, dell'insulina e di altri ormoni, il secondo dei vaccini. L'impiego terapeutico di questi agenti consiste nel reintegrare la composizione dell'organismo o nel valorizzarne le potenzialità. La loro sicurezza, pertanto, dipende dalle conoscenze di base che li riguardano, le quali a loro volta consentono di avvalersi del collaudo al quale la natura li ha sottoposti nel corso di migliaia o milioni di anni. Il loro studio nell'animale, al fine di verificarne la sicurezza prima della sperimentazione sull'uomo e del successivo impiego medico, può essere utile, ma non è indispensabile. Inoltre, in qualche caso questi medicamenti sono costituiti da proteine talmente diverse da specie a specie, che il trasferimento dall'animale all'uomo dei risultati diventa non più solo difficile, ma impossibile.
Lo studio dei fenomeni naturali è prezioso anche quando porta alla scoperta di medicamenti estranei alla composizione ed al funzionamento dell'organismo umano. Un esempio classico è quello dell'antibiosi, descritta fin dal secolo scorso da Pasteur e Joubert (1877). Alcuni microrganismi secernono, come questi scienziati scoprirono, delle sostanze velenose che proteggono da altri meccanismi con i quali esiste una competizione. Questa osservazione non solo ha anticipato l'avvento dei moderni antibiotici, ma ha fornito una lezione riguardante gli inconvenienti che ne hanno accompagnato l'impiego. L'antibiosi è un meccanismo difensivo relativamente primordiale, in quanto gli antibiotici sono armi a composizione fissa, che non possono essere adattate alle caratteristiche specifiche di ciascun aggressore. Inoltre, nei loro confronti è agevole sviluppare delle contromisure, che si traducono nella resistenza. Pertanto, nel corso dell'evoluzione la natura ha cercato altre soluzioni, che le sono state offerte nel sistema immunitario che compare a partire dai vertebrati. Quest'ultimo non produce sostanze a composizione fissa, come gli antibiotici, ma gli anticorpi, che possono essere modificati tenendo conto sia delle caratteristiche specifiche di ciascun aggressore, sia anche del suo eventuale controadattamento. Una lettura attenta dei processi naturali ci avrebbe, quindi, potuto preavvisare degli inconvenienti degli antibiotici, rappresentati principalmente dalla resistenza, e ci avrebbe insegnato che la strada maestra da percorrere nella lotta contro le infezioni non è quella degli antibiotici, o anche dei chemioterapici, ma dei vaccini.
Il problema della sperimentazione sull'animale assume dimensioni diverse con le malattie poco conosciute. In queste circostanze si è spesso fatto ricorso a modelli animali capaci di riprodurne i sintomi o le manifestazioni esteriori. Un esempio classico è quello dell'epilessia. Merritt e Putnam (1938) hanno l'idea di riprodurre questa malattia nell'animale da laboratorio utilizzando una scarica elettrica capace di indurre convulsioni ed utilizzano questo modello sperimentale per setacciare gli agenti allora disponibili. Questo sistema, sostanzialmente empirico in quanto l'origine dell'epilessia è sconosciuta, consente di identificare la fenitoina, tuttora usata in terapia, e molti altri agenti.
I modelli sperimentali di malattie le cui cause sono sconosciute si sono moltiplicati e sono diventati di grande importanza nella ricerca farmacologica. Sotto certi aspetti, tuttavia, essi si sono rivelati fuorvianti, come si è già annotato in precedenza, ed hanno comportato molti inconvenienti. Prendiamo la schizofrenia, per fare un esempio. Nel momento in cui questo articolo è scritto se ne ignorano le cause, le basi organiche, il substrato concreto che la sostiene. Nell'animale, pertanto, se ne possono riprodurre le manifestazioni esteriori e, con gran fatica, qualcosa che ne simuli i sintomi psichici, come le allucinazioni, che il paziente descrive nei momenti di lucidità. L'impiego di questi modelli sperimentali di schizofrenia nella ricerca biomedica ha permesso l'identificazione di medicamenti sintomatici, non curativi. È anche successo che attraverso le caratteristiche di questi medicamenti si sia cercato di risalire alle cause della malattia. E' un procedimento rischioso, che facilmente porta a confondere i sintomi con le cause. Se fosse stato applicato allo studio delle malattie infettive quando ancora non erano stati isolati i microrganismi patogeni, ma erano già disponibili gli antipiretici, avrebbe portato a concludere che le infezioni sono causate dalla febbre.
L'impiego di questi modelli empirici di malattia porta, generalmente, alla scoperta di medicamenti costituiti da sostanze sintetizzate per la prima volta dall'uomo o, comunque, prive di qualunque riscontro nella composizione e nel funzionamento del suo organismo. Prima di essere impiegati in terapia, di conseguenza, devono essere sottoposti ad un approfondito collaudo tendente a verificarne la sicurezza. Come si è già ricordato, oggi è possibile ricorrere a prove in vitro, che forniscono informazioni preziose sui potenziali rischi tossicologici. A meno di indicazioni talmente negative da suggerire l'abbandono di una sostanza, alle prove in vitro vanno in seguito affiancate quelle acute, subacute, croniche e speciali, che sono condotte su diverse specie animali analizzandone la risposta a livello dei principali organi ed apparati. Di conseguenza, si può affermare che la sperimentazione animale del terzo tipo, precedentemente indicata al punto c) con la denominazione "collaudo tossicologico dei farmaci", nasce soprattutto dal sistema empirico di ricerca sopra descritto e dalle caratteristiche dei farmaci che esso consente di identificare.
In senso più generale ancora, si può concludere che la vera misura alternativa alla sperimentazione animale, quella che potrebbe ridimensionarne sostanzialmente l'importanza nella ricerca biomedica, è costituita non solo dal ricorso agli studi in vitro, ai modelli informatici e ad altri mezzi di valore analogo, ma soprattutto da un ripensamento di fondo riguardante la strategia stessa della ricerca. Da una parte ci sono i laboratori dove l'uomo conduce la sua sperimentazione, sia sull'animale sia su altro materiale, secondo la sua logica, che è quella di combattere rapidamente e con qualunque mezzo disponibile i mali che lo affliggono. Dall'altra parte c'è il grande laboratorio della natura, nel quale in ogni istante, da molti milioni di anni, sono condotti miliardi di esperimenti su ogni genere di vivente. Gran parte dei problemi che l'uomo si affanna a risolvere sono già stati affrontati qui ed hanno trovato una risposta.
Purtroppo, queste soluzioni non sono scritte sui libri né conservate nelle biblioteche o nei moderni mezzi informatici, che sono di consultazione relativamente facile, ma sono impresse nel funzionamento stesso della vita. La lettura di questo libro richiede una sensibilità particolare, che non tutti gli scienziati hanno. Questo non è l'unico motivo, tuttavia, che porta a trascurare la sperimentazione condotta dalla natura. Attorno a quella condotta dall'uomo si è consolidato, col passare del tempo, un insieme di norme che l'hanno favorita a discapito dell'altra. L'impianto brevettuale premia le sostanze chimiche realizzate per la prima volta dall'uomo, più che le loro caratteristiche intrinseche. Senza la proprietà garantita dal brevetto, d'altronde, un'industria farmaceutica che investisse nella ricerca si troverebbe nella medesima condizione di un costruttore, che edificasse un edificio senza averne il possesso. Lo potrebbe fare una volta, forse due, ma poi fallirebbe. Di conseguenza, l'industria farmaceutica è stata spinta fin dal secolo scorso a puntare più sulla sintesi di nuove molecole, che non sulla valorizzazione terapeutica di sostanze in sé più promettenti, ma già note, e, quindi, meno facilmente brevettabili. Ha, inoltre, insistito sul setacciamento empirico di queste nuove molecole, anziché sulla ricerca di base.
In questo modo, col passare del tempo si è persa la nozione che i farmaci empirici, quelli che curano le malattie prima di conoscerne le cause, devono rappresentare un rimedio di emergenza, in attesa di realizzarne altri sostenuti da una solida base scientifica, quella che necessariamente trae vantaggio dalla lezione della natura. Denunciare questa situazione sarebbe un'operazione sterile, se contemporaneamente non fossero formulate delle proposte costruttive. A questo fine occorre un forte impegno culturale, per dibattere questi problemi di fondo e, quindi, favorire una riconversione della ricerca biomedica industriale ed accademica che non suoni come misura punitiva, ma sia piuttosto la conseguenza e l'espressione di un cambiamento dei fattori che ne hanno fin qui condizionato lo sviluppo, a cominciare dai principi della brevettazione.
Un'analisi della sperimentazione animale che si limitasse ai suoi aspetti superficiali, senza entrare nel merito delle sue radici profonde, sarebbe inadeguata anche sul piano etico. E' auspicabile che questa visione del problema aiuti a superare le polemiche tra sostenitori ed oppositori di questa pratica, unendoli in iniziative congiunte capaci di soddisfare le aspettative degli uni come degli altri.
Il genoma dell'animale
Il genoma, la particella infinitesimale racchiusa in ciascuna dei miliardi di miliardi di cellule che compongono un organismo animale: ecco un argomento di enorme interesse sul piano scientifico, così come etico.
Con la biologia molecolare l'uomo ha imparato a manipolarlo, a cancellarvi le informazioni che reputa dannose ed a sostituirle con altre, potenzialmente utili. In altre parole, ha imparato a sperimentare sul programma, chiamato genoma, dal quale dipendono gli sviluppi della vita. Lo fa in vitro, in provetta come si diceva una volta, ovvero fuori dalla sperimentazione animale, quella che solleva il quesito se sia eticamente corretto infliggere ad un altro essere vivente delle sofferenze a beneficio dell'uomo. Il problema, di conseguenza, non si pone nei termini soliti di tutela dell'animale, ma delle conseguenze derivanti dalla violazione di ciò che conserva memoria della vita passata e la usa, tenendo conto delle circostanze esterne, per determinarne gli sviluppi futuri
Ne è nato un senso di spavento, diffuso nella gente comune, oltre che nei governanti e negli scienziati, che ha portato a proposte di moratorie o proibizioni della sperimentazione sul genoma in genere, umano ed anche animale.
Eppure, in tutto questo non c'è niente di nuovo. Non solo la sperimentazione condotta dalla natura nel suo immenso laboratorio, costituito da tutti gli esser viventi, ma anche quella condotta dall'uomo verte da sempre sul genoma. E' ormai da molti millenni che l'uomo ha imparato a manipolarlo ed a deviarlo dal suo corso. È avvenuto quando gli animali sono stati addomesticati, sottraendoli alle loro abitudini originarie e costringendoli ad adottarne altre, quando sono stati selezionali quelli con caratteristiche psichiche e somatiche diverse da quelle originarie, meglio rispondenti alle esigenze specifiche dell'uomo. Questo intervento ha comportato la conservazione di particolari anomalie, chiamate mutazioni, che in una logica diversa da quella umana rappresentavano tentativi mal riusciti, che sarebbero stati immediatamente abbandonati. Il genoma, quindi, non è sacro o immutabile: al contrario, muta da sempre sia per la sua forza intrinseca, sia per l'intervento dell'uomo.
Quello che è cambiato non è il problema in sé, ma la velocità dei cambiamenti prodotti sul genoma dall'uomo. Pertanto, se proibire la sperimentazione sul genoma non avrebbe senso, in quanto essa è già in corso da sempre, è invece indispensabile una pausa di riflessione, che potrebbe anche tradursi in una moratoria delle manipolazioni consentite dalla biologia molecolare, oltre che in un loro severo controllo.
Il lettore attento avrà certamente avvertito che, anche senza essere esplicitamente menzionate, queste considerazioni aleggiano attorno alle tre leggi fondamentali della vita: la difesa del sé, la solidarietà e la gradualità.
R iflessioni conclusive
Ogni volta che si confronta con la natura, cercando di esplorarla o di dominarla, l'uomo avverte sentimenti alterni, d'esaltazione nel momento dei successi, di smarrimento, quando questi stessi successi gli si ritorcono contro, rendendo consapevole della sua debolezza ed incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.
È preda di questi sentimenti anche lo scienziato, quando all'esaltazione di avere decifrato una parte del grande libro della natura, o di essere protagonista della lotta contro i mali che affliggono l'umanità, subentra la consapevolezza dei suoi limiti. Allora, la vista gli si annebbia e le sue stesse vittorie sembrano ritorcersi contro di lui. Forse, lo avverte oggi più di ieri, perché mai aveva avuto a sua disposizione mezzi altrettanto potenti, ma è un problema di sempre.
Succede anche a chi cerca di ricavare da ciò che sa una regola etica, che valga anche per il suo lavoro. Se è un ricercatore, egli crede in ciò che fa, anche perché la sua non è solo "ansia astratta di conoscenza, ma anche bisogno di metterla al servizio dell'uomo". Fatica a comprendere "i diritti dell'animale", così come li ha chiamati Peter Singer. Forse che il topo ha dei diritti nel confronti del gatto, o il passero nei confronti del falco? Egli ricorda come questo problema è già stato affrontato, con la consueta chiarezza del pensiero filosofico greco, oltre 2000 anni fa:
XXXI. Il diritto secondo natura è il simbolo del-
l'utilità allo scopo che non sia fatto né ricevuto danno
XXXII. Per tutti quegli animali che non poterono
stringere patti per non ricevere né recarsi danno
reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiu-
sto, altrettanto per tutti quei popoli che non volle-
ro e non poterono porre patti per non ricevere e
non recare danno (Epicuro, 1960).
Perché l'uomo dovrebbe fare eccezione a questa regola?
Poi il ricercatore scopre che c'è qualcosa di vero nei sentimenti della gente comune, in quella loro mancanza di fiducia nella scienza, che si allontana dalla natura, in quel loro senso di solidarietà per l'animale. Allora è afferrato anche lui dai dubbi e le sue certezze si incrinano.
Sono i momenti del ritorno alle cose essenziali, quelle che contano, che danno un senso a tutte le altre. Il biologo le scopre a modo suo. La prima legge della vita, quella della difesa del sé, che però si giustifica solo nel limite in cui corrisponde ad esigenze vitali, non al capriccio o all'ostentazione della propria forza. La seconda legge della vita, quella della solidarietà, che le difficoltà rinsaldano rendendola tanto più indispensabile, quanto più esse impongono. Infine la terza, quella della gradualità, che è la legge della pazienza, della saggezza. Linneo, ispirato dalla sua visione della vita che sgorga al di fuori dell'intervento dell'uomo, l'ha denominata Natura non facit saltus, ma si applica anche al progresso scientifico e tecnologico. Se l'embrione per crescere nel seno della madre senza esserne rigettato spende nove mesi, che per lui sono un tempo inenarrabilmente più lungo di quello dell'adulto, allora anche le invenzioni umane richiedono una sperimentazione tanto più protratta, quanto più sono dirompenti. Solo così, forse, anche la sperimentazione sull'animale cessa di essere una deviazione dall'ordine naturale delle cose, o per converso una sua brutale espressione, per diventare per diventarne una parte integrante, illuminata dalla ragione dell'uomo.
Questa è la chiave interpretativa che un biologo offre, umilmente, al lettore. Lo fa nel convincimento che il termine bioetica abbia, oltre al significato che gli viene correntemente attribuito (Reich, 1994), anche quello di scienza dei principi etici ricavati dallo studio dalla vita.
Bibliografia
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- CNR. Commissione di Bioetica. Documento sulla sperimentazione animale, CNR Ufficio Pubblicazioni e Informazioni Scientifiche, 1992
- D'Agostino F. Bioetica (Recta Ratio, 1). Torino, G. Giappichelli Editore, 1996, pp. 221-247
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- Schiller J. Claude Bernard and vivisection. (1967) Journal of History of Medicine, 22, 246
- Silvestrini B.L'innovazione medica al servizio dell'uomo. (1997) Dolentium Hominum, 34: 77-80
E-mail: silvestrini@axrma.uniroma1.it